Sottotitolo: passione e noia, entusiasmo e disillusione, scoperta ed abitudine.
L'altro giorno leggo su un forum di montagna questo post:
Shortly 8a will present a free of charge 8a Tick List App including some Topos. The plan is to produce Topos in cooperation with the community. In the long run we hope to make topos available for most of the major crags around the globe.
The topos will be based on the Tick List and present the routes from left to right. In the future it will also include GPS positioning, pictures and beta etc.
It will also be possible to produce topos for new areas and to update old ones. Anybody who would like to take an active part in improving first the Tick List and later numbering of the routes, please send an email to [email protected].
Accompagnato da un laconico commento: “La stanno definitivamente uccidendo”.
(Soggetto sottinteso: l'arrampicata).
E così mi è venuto da fare un po' di associazioni...
Il brano in questione è “L'ultima avventura”, scritto nel 1972, di cui viene letta l'ultima parte. Ma per capire quel “Allora partirò io, senza compagni, per dove non so...” con cui inizia la citazione nel film bisogna fare un passo indietro e riprendere lo scritto dal principio:
Mi succede ogni tanto di essere un po' stanco. In autunno quando torno a ripercorrere itinerari di palestra, dove la successione dei movimenti è ben impressa nella mia mente, in primavera quando riscopro valloni e montagne che ho visto decine di volte. Ma non è che mi vengano meno le sensazioni, anzi, tutt'altro: è che forse cerco ancora un briciolo d'avventura in un ambiente dove non sempre riesco a trovarla.
Andiamo un po' indietro nel tempo.
Mi sembra di risalire il lungo e selvaggio Vallone di Piantonetto, mi pare d'averlo davanti agli occhi, solitario, cupo e un po' tetro nella luce della sera. Rivedo il grande pianoro di pascoli con il piccolo gruppo di casere addossate le une alle altre, sotto i salti di roccia. Quasi si confondono con le pietraie, sono grigie, grigi i loro muri, grigie le scàndole che ricoprono il tetto.
La sera di un sabato di settembre sono pochi quelli che sono saliti fin quassù e sono tutti amici.
Non c'è rifugio, forse ancora pochi conoscono il Piantonetto. [...]
Durante la notte pioveva e le scàndole del tetto lasciavano passare gocce abbondanti.
La sera si ritornava al grande pianoro chiuso tra monti altissimi e si restava stupiti da quel grande silenzio, smarriti in quell'atmosfera intima e incantata che ti lascia qualcosa dentro.
Perchè avevi vissuto un'avventura. [...]
Sovente ritorno al Piantonetto.
Oggi c'è un grande e comodo rifugio che ogni sabato sera è pieno zeppo di gente che viene anche da lontano: Milano, Genova, Bergamo... Nessuno ormai va a dormire nelle scomode grange e può darsi che nessuno, camminando, le noti più.
Prima che giunga l'alba, decine e decine di piccole lampade risalgono il grande pianoro e poi, adagio, i ripidi canaloni che portano sotto le pareti. A volte se vuoi ripetere la Perego ti tocca fare la coda, ormai è una via classica, non fa più paura a nessuno, anche peché i passaggi più duri li hanno addomesticati con tanti chiodi.
Eppure io ritorno ancora al Piantonetto perchè ci sono affezionato; ma a volte, quando di sera ripercorro il gran pianoro, mi pare d'essere un po' stanco.
Vedo intorno a me un sacco di gente che va e viene, la sera nel rifugio è un gran vociare.
Ricordo molto bene come davanti alle casere fossimo pochi, e stessimo lì seduti sulle pietre a parlare di tante cose e forse anche a cantarne una.
E ora qualcuno dirà: ma vuoi la montagna tutta per te?
No, o forse sì.
[...]
Su una parete della mia camera ho appeso un grande foglio bianco su cui c'è scritto "Conosci te stesso".
Ogni mattina quando mi sveglio mi sforzo di leggerlo. Forse una mattina mi sveglierò e mi verrà il desiderio di vivere ancora una grande avventura.
Allora troverò un compagno che mi seguirà sulle grandi placche chiare della via Hemming al Dru, o nel silenzio opprimente della parete nord del Cervino.
Ma forse anche qui non saremo soli.
Allora partirò io, senza compagni, per dove non so.
A volte immagino una grande parete, che forse non ho mai visto e che non vedrò mai, e mi vedo salire leggero, elegante e sicuro.
Niente corda, niente chiodi, certo di non cadere mai.
Mi vedo fermo la sera su un terrazzino a riordinare le mie cose, e poi seduto a guardare una valle sconosciuta, dove le piccole luci che si accendono a una a una mi ricordano con struggente melanconia che esistono anche gli uomini, mi ricordano quegli occhi incontrati per caso che promettevano un mare di cose belle e che forse sono rimaste tali proprio perché fermate in quello sguardo.
Un giorno forse partirò e ritornerò a girovagare per i monti e i boschi della valle dove la prima volta ho incontrato me stesso. E forse sarebbe questa la vera avventura.
È vero, a volte sono un po' stanco. Ma ho degli amici veri che mi comprendono e che sanno dare.
Con loro forse un giorno saprò rivedere con gli occhi incantati di allora una valle e un monte candido e scintillante, che appare altissimo sopra i tetti di un villaggio tibetano fermato nel tempo.
Non è poi così difficile, anche se talvolta tutto appare intricato, contorto, quasi impossibile.
Ma è in noi stessi la soluzione, nella nostra semplicità.
Allora forse scopriremo l'avventura ogni giorno, aprendo solamente la finestra e guardando i grigi tetti delle case di una qualunque città.
Troppo facile ricordarsi della famosa frase:
“Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell'avere nuovi occhi”
di Proust?
E allora, come in gioco di specchi (nella prima parte di Cannabis Rock viene letto un pezzetto di “La Nube”), mi ricordo dei “Dialoghi con Leucò di Pavese”. Di quel racconto che più mi colpì quando lessi il libro, “Le Muse”:
MNEMÒSINE In conclusione, tu non sei contento
ESIODO Ti dico che, se penso a una cosa passata, alle stagioni già concluse, mi pare di esserlo stato. Ma nei giorni è diverso. Provo un fastidio delle cose e dei lavori come lo sente l’ubriaco. Allora smetto e salgo qui sulla montagna. Ma ecco che a ripensarci mi par di nuovo di esser stato contento.
MNEMÒSINE Così sarà sempre.
ESIODO Tu che sai tutti i nomi, qual è il nome di questo mio stato?
MNEMÒSINE Puoi chiamarlo col mio, o col tuo nome.
ESIODO Il mio nome di uomo, Melete, non è nulla. Ma tu come vuoi essere chiamata? Ogni volta è diversa la parola che t’invoca. Tu sei come una madre il cui nome si perde negli anni. Nelle case e sui viottoli donde si scorge la montagna, si parla molto di te. Si dice che un tempo tu stavi su monti più impervi, dove son nevi, alberi neri e mostri, nella Tracia o in Tessaglia, e ti chiamavano la Musa. Altri dice Calliòpe o Cliò. Qual è il nome vero?
MNEMÒSINE Vengo infatti di là. E ho molti nomi. Altri ne avrò quando sarò discesa ancora… Aglaia, Egemòne, Faenna, secondo il capriccio dei luoghi.
ESIODO Anche te il fastidio caccia per il mondo? Non sei dunque una dea?
MNEMÒSINE Né fastidio né dea, mio caro. Oggi mi piace questo monte, l’Elicona, forse perché tu lo frequenti. Amo stare dove sono gli uomini, ma un poco in disparte. Io non cerco nessuno, e discorro con chi sa parlare.
ESIODO O Melete, io non so parlare. E mi par di sapere qualcosa soltanto con te. Nella tua voce e nei tuoi nomi c’è il passato, ogni stagione che ricordo.
MNEMÒSINE In Tessaglia il mio nome era Mneme.
ESIODO Qualcuno che parla di te ti dice vecchia come la tartaruga, decrepita e dura. Altri ti fanno ninfa acerba, come il boccio o la nuvola…
MNEMÒSINE Tu che dici?
ESIODO Non so. Sei Calliòpe e sei Mneme. Hai la voce e lo sguardo immortali. Sei come un colle o un corso d’acqua, cui non si chiede se son giovani o vecchi, perché per loro non c’è il tempo. Esistono. Non si sa altro.
MNEMÒSINE Ma anche tu, caro, esisti, e per te l’esistenza vuol dire fastidio e scontento. Come t’immagini la vita di noialtri immortali?
ESIODO Non me la immagino, Melete, la venero, come posso, con cuore puro.
MNEMÒSINE Continua, mi piaci.
ESIODO Ho detto tutto.
MNEMÒSINE Vi conosco, voi uomini, voi parlate a bocca stretta.
ESIODO Non possiamo far altro, davanti agli dèi, che inchinarci.
MNEMÒSINE Lascia stare gli dèi. Io esistevo che non c’erano dèi. Puoi parlare, con me. Tutto mi dicono gli uomini. Adoraci pure se vuoi, ma dimmi come t’immagini ch’io viva.
ESIODO Come posso saperlo? Nessuna dea mi ha degnato del suo letto.
MNEMÒSINE Sciocco, il mondo ha stagioni, e quel tempo è finito.
ESIODO Io conosco soltanto la campagna che ho lavorato.
MNEMÒSINE Sei superbo, pastore. Hai la superbia del mortale. Ma sarà tuo destino sapere altre cose. Dimmi perché quando mi parli ti credi contento?
ESIODO Qui posso risponderti. Le cose che tu dici non hanno in sé quel fastidio di ciò che avviene tutti i giorni. Tu dài nomi alle cose che le fanno diverse, inaudite, eppure care e familiari come una voce che da tempo taceva. O come il vedersi improvviso in uno specchio d’acqua, che ci fa dire «Chi è quest’uomo?»
MNEMÒSINE Mio caro, ti è mai accaduto di vedere una pianta, un sasso, un gesto, e provare la stessa passione?
ESIODO Mi è accaduto.
MNEMÒSINE E hai trovato il perché?
ESIODO È solo un attimo, Melete. Come posso fermarlo?
MNEMÒSINE Non ti sei chiesto perché un attimo, simile a tanti del passato, debba farti d’un tratto felice, felice come un dio? Tu guardavi l’ulivo, l’ulivo sul viottolo che hai percorso ogni giorno per anni, e viene il giorno che il fastidio ti lascia, e tu carezzi il vecchio tronco con lo sguardo, quasi fosse un amico ritrovato e ti dicesse proprio la sola parola che il tuo cuore attendeva. Altre volte è l’occhiata di un passante qualunque. Altre volte la pioggia che insiste da giorni. O lo strido strepitoso di un uccello. O una nube che diresti di aver già veduto. Per un attimo il tempo si ferma, e la cosa banale te la senti nel cuore come se il prima e il dopo non esistessero più. Non ti sei chiesto il suo perché?
ESIODO Tu stessa lo dici. Quell’attimo ha reso la cosa un ricordo, un modello.
MNEMÒSINE Non puoi pensarla un’esistenza tutta fatta di questi attimi?
ESIODO Posso pensarla sì.
MNEMÒSINE Dunque sai come vivo.
ESIODO Io ti credo, Melete, perché tutto tu porti negli occhi. E il nome di Euterpe che molti ti dànno non mi può più stupire. Ma gli istanti mortali non sono una vita. Se io volessi ripeterli perderebbero il fiore. Torna sempre il fastidio.
MNEMÒSINE Eppure hai detto che quell’attimo è un ricordo. E cos’altro è il ricordo se non passione ripetuta? Capiscimi bene.
ESIODO Che vuoi dire?
MNEMÒSINE Voglio dire che tu sai cos’è vita immortale.
ESIODO Quando parlo con te mi è difficile resisterti. Tu hai veduto le cose all’inizio. Tu sei l’ulivo, l’occhiata e la nube. Dici un nome, e la cosa è per sempre.
MNEMÒSINE Esiodo, ogni giorno io ti trovo quassù. Altri prima di te ne trovai su quei monti, sui fiumi brulli della Tracia e della Pieria. Tu mi piaci più di loro. Tu sai che le cose immortali le avete a due passi.
ESIODO Non è difficile saperlo. Toccarle, è difficile.
MNEMÒSINE Bisogna vivere per loro, Esiodo. Questo vuol dire, il cuore puro.
ESIODO Ascoltandoti, certo. Ma la vita dell’uomo si svolge laggiù tra le case, nei campi. Davanti al fuoco e in un letto. E ogni giorno che spunta ti mette davanti la stessa fatica e le stesse mancanze. È un fastidio alla fine, Melete. C’è una burrasca che rinnova le campagne — né la morte né i grossi dolori scoraggiano. Ma la fatica interminabile, lo sforzo per star vivi d’ora in ora, la notizia del male degli altri, del male meschino, fastidioso come mosche d’estate — quest’è il vivere che taglia le gambe, Melete.
MNEMÒSINE Io vengo da luoghi più brulli, da burroni brumosi e inumani, dove pure si è aperta la vita. Tra questi ulivi e sotto il cielo voi non sapete quella sorte. Mai sentito cos’è la palude Boibeide?
ESIODO No.
MNEMÒSINE Una landa nebbiosa di fango e di canne, com’era al principio dei tempi, in un silenzio gorgogliante. Generò mostri e dèi di escremento e di sangue. Oggi ancora i Téssali ne parlano appena. Non la mutano né tempo né stagioni. Nessuna voce vi giunge.
ESIODO Ma intanto ne parli, Melete, e le hai fatto una sorte divina. La tua voce l’ha raggiunta. Ora è un luogo terribile e sacro. Gli ulivi e il cielo d’Elicona non son tutta la vita.
MNEMÒSINE Ma nemmeno il fastidio, nemmeno il ritorno alle case. Non capisci che l’uomo, ogni uomo, nasce in quella palude di sangue? e che il sacro e il divino accompagnano anche voi, dentro il letto, sul campo, davanti alla fiamma? Ogni gesto che fate ripete un modello divino. Giorno e notte, non avete un istante, nemmeno il più futile, che non sgorghi dal silenzio delle origini.
ESIODO Tu parli, Melete, e non posso resisterti. Bastasse almeno venerarti.
MNEMÒSINE C’è un altro modo, mio caro.
ESIODO E quale?
MNEMÒSINE Prova a dire ai mortali queste cose che sai.
Continuando questo gioco, penso ad un'altra considerazione letta su un forum qualche tempo fa:
«...ci vorrebbe più rilassatezza e meno poserismo.
mi rendo conto di essere molto cinico ma il fatto di aver raggiunto degli obiettivi che mi ero prefissato dopo l incidente (ebbene si anche io avevo degli obiettivi) mi ha completamente svuotato, al posto di sentirmi felice e motivato mi ha svuotato.
l 'arrampicata, la montagna tutto mi è apparso diverso: più brutto e più grigio quasi inutile, un tran tran.
nello specifico era tornare a fare l 8a in falesia e il 7c di blocco.
in 3 anni circa ho collezionato + di 200 blocchi dal 7a al 7c e 170 tiri circa dal 7a all'8a
tutte le cose che scrivi dell aspetto mentale, provate e riprovate in tutte le salse, sfidando i famosi limiti. che poi ripeto tutto si riduce ad essere deboli ad avere paura e a non essere motivati.
mi sono svenato per questo ma poi cosa rimane?
un cazzo
è tutto sbagliato.
adesso ho smesso perchè devo farmi scivolare di dosso questa mentalità del cazzo e tornare a scalare per il gusto di scalare.
ma il gusto vero non quello che dicono tutti con toni sharmiani e presunte filosofia di vita chillout e poi sei in falesia o a far blocchi con in testa di fare il tiro o il blocco e poi ti rode il culo perchè non lo fai.
quella non è filosofia di vita è sport.
per cui mi state sul cazzo.
si questa è una confessione, ho perso la rotta e la devo ritrovare.»
Incredibile come nella spontaneità di queste parole all'autore sia sfuggito un apostrofo, l'omissione del quale era diventata per lui un vezzo irrinunciabile.
La stessa persona, in un altro intervento che non sono riuscito a ritrovare ma che mi aveva molto colpito, affermava di voler abbandonare la scalata per riaccostarvisi poi dopo lungo tempo, costretto a ricominciare dalle basse difficoltà, con la speranza di ri-entusiasmarsi chiudendo i 6a come agli esordi.
Quando ho letto questo intervento ho immediatamente pensato ad un passo di “Novecento” di Baricco, un libro che amo molto:
“Devo vedere una cosa laggiù”, mi disse.
“Quale cosa?” Non voleva dirla, e si puo' anche capire perché quando alla fine la disse, quel che disse fu: “Il mare”.
“Il mare?”.
“Il mare”.
Pensa te, a tutto potevi pensare ma non a quello. Non volevo crederci, sapeva di presa per il culo bell'e buona. Non volevo crederci, era la cazzata del secolo. “Sono trentadue anni che lo vedi il mare, Novecento!”
“Da qui. Io lo voglio vedere da là. Non è la stessa cosa”. Sant'Iddio, mi sembrava di parlare con un bambino.
“Va beh, aspetta di essere in porto, ti sporgi e lo guardi per bene. È la stessa cosa”.
“Non è la stessa cosa”.
“E chi te lo ha detto?”
Gliel'aveva detto uno che si chiamava Baster, Lynn Baster. Un contadino. Uno di quelli che vivono quarant'anni lavorando come muli e tutto quello che hanno visto è il loro campo e, una o due volte, la città grande, qualche miglio più in là, il giorno della fiera. Solo che poi a lui la siccità aveva portato via tutto, la moglie se n'era andata con un predicatore di non so cosa, e i figli se li era portati via la febbre, tutti e due. Uno con la buona stella, insomma. Così un giorno aveva preso le sue cose, e aveva fatto tutta l'Inghilterra a piedi per arrivare a Londra. Dato però che non se ne intendeva granché, di strade, invece che arrivare a Londra era finito in un paesino da nulla, dove però se continuavi sulla strada, facevi due curve e giravi dietro la collina, alla fine, d'improvviso vedevi il mare. Non l'aveva mai visto prima, lui. Ne era rimasto fulminato. L'aveva salvato, a voler credere a quello che diceva. Diceva: "È come un urlo gigantesco che grida e grida, e quello che grida è: “Banda di cornuti, la vita è una cosa immensa, lo volete capire o no? Immensa!”. Lui, Lynn Blaster, quella cosa non l'aveva pensata mai. Proprio non gli era capitato di pensarla. Fu come una rivoluzione, nella sua testa.
E - richiudendo il cerchio - penso anche alle “Antiche Sere” di Motti, quel ritorno consapevole alle alte quote che Gian Piero immaginava dopo la catarsi depurativa del “Nuovo Mattino”. Per provare a vedere cose conosciute da un altro punto di vista bisogna prima - dolorosamente - separarsene.
Come concludere questa passeggiata passeggiata per le libere associazioni dei miei pensieri, che immagino ai più apparirà delirante e sconclusionata?
Proprio nel Piantonetto di cui Motti parla nel suo articolo - si trova la Placca dei Sogni. Una parete insignificante. O forse no.
La Placca dei Sogni è una parete appoggiata che sarà alta cento metri e larga altrettanti. Inizia da un prato ripido, e finisce su un prato ripido. Una cascata sul margine sinistro fa da colonna sonora. Alla base non c'è una pietra. La roccia è stupefacente per geometrie e colori.
Per arrivarci si cammina per un'ora e mezza dal rifugio con uno zaino imponente e ignorando che esiste un comodo sentiero.
Insomma, è un posto che arrampicatoriamente non ha senso.
Ai miei occhi però è di una bellezza commovente.
[460 su Fuorivia]
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