Cannabis Rock è un film, un documentario, un collage, una collezione di ricordi, un patchwork di interviste, ...
Per me Cannabis Rock è un viaggio.
Parole, volti e musica riescono a trasportarmi in un altro tempo e in un altro luogo, un tempo ed un luogo che mi dispiace di non aver vissuto in prima persona.
Come un viaggio mi porta lontano.
E, come un viaggio, mi lascia pieno di stimoli.
È un viaggio che mi piace ripetere spesso, anche solo per qualche breve tratto; ogni volta mi diverte e mi emoziona.
Sono felice che qualcuno abbia radunato con cura questi piccoli pezzi di vita, e li abbia lasciati lì - come un libro intenzionalmente abbandonato su una panchina - per chi abbia voglia di sfogliarli.
Questo video è una sorta di piccolo trailer:
E questa è una bellissima recensione di Luca Signorelli, a cui mi sono permesso di accostare immagini e video:
La seguente mia recensione contiene parecchi spoiler sul contenuto del documentario "Cannabis Rock - Gli Arrampicatori Che Vissero Il Nuovo Mattino". Se non amate questo genere di anticipazioni, siete stati avvertiti!
"Cannabis Rock - Gli Arrampicatori che Vissero Il Nuovo Mattino", diretto da Franco Fornaris - Prodotto da Zenit Arti Visive - distribuito su DVD da Fandango e disponibile nelle librerie specializzate (www.fandango.it)
L’esperienza del “Circo Volante”, il gruppo di arrampicatori torinesi che 30 anni fa si raccolse attorno alla figura carismatica di Giampiero Motti e al suo “Nuovo Mattino”, rimane per molti versi un mistero, al di la delle appropriazioni più o meno indebite che questo o quell’arrampicatore sportivo (o alpinista) ha fatto degli elementi più appariscenti di quell’esperienza. Fu, come sostiene Enrico Camanni, il segnale di (som)movimenti dopo dei quali “niente fu come prima”, e che (al di là le intenzioni dei suoi protagonisti), diede il via a tutta la rivoluzione del gesto esasperato e dell’arrampicata protetta? Oppure fu una disperata rivolta contro il futuro, una generosa ribellione alla morte dell’anima arrampicatoria, che nel 1975 era ancora di là da venire ma in qualche modo già nell’aria?
Franco Fornaris pende decisamente per la seconda interpretazione, e non ne ha fatto mistero un mese fa al Cinema Massimo di Torino (sede storica del Torino FilmFestival, per voi che abitate altrove) dove “Cannabis Rock - Gli Arrampicatori Che Vissero Il Nuovo Mattino”, il suo documentario sull’epopea del “Circo Volante” e del Nuovo Mattino è stata presentata ufficialmente ad un vero e proprio “parterre des rois”, denso di nomi famosi della scena del Nord Ovest, oltre ad alcuni protagonisti del documentario stesso. Franco (che del regista ha faccia, linguaggio, manierismi e vestiario) ha espresso il concetto con molta semplicità (e quindi bene) parlando però di chewing-gum “Una volta i chewing-gum facevano le bolle. Adesso profumano l’alito, sono senza zucchero, puliscono i denti… ma non fanno più le bolle. Beh, le bolle erano un’altra cosa”.
Sembrerebbe una boutade nostalgica, ma nel documentario di nostalgia ce ne è sorprendentemente poca. In parte perché i protagonisti della narrazione non sembrano, e di certo non si sentono, degli “ex”. C’è, anche nelle parole dei più pacati, un senso di ricordo divertito (ma non distaccato) di quegli anni e di quell’esperienza, tutto sommato vista con serenità. E’ sintomatico come Roberto Bonelli (che fu in un certo senso “l’eroe non cantato” di quegli anni, un fortissimo arrampicatore che scelse deliberatamente l’oscurità mediatica) si lamenti non di quanto è successo, ma di quello che NON successe – in pratica, di come il “Circo Volante” non trasferì mai il suo potenziale arrampicatorio e la sua dissacrazione dalle strutture di bassa quota all’alta montagna (se non più tardi e indirettamente tramite la figura di Giancarlo Grassi) “Perché la vetta, la montagna, sono cose importanti”, conclude Bonelli. Parole che sembrano contraddire l’intera filosofia del Nuovo Mattino e di Giampiero Motti – almeno com’è stata tramandata finora. Non è l’unica delle interessanti contraddizioni del film.
Un po’ di storia: Motti era istruttore della Scuola di Alpinismo “Gervasutti” di Torino, un istituzione prestigiosa ma, allo stesso tempo, un pilastro dell’ortodossia alpinistica. A seguito di una crisi personale profonda, nel 1972 scrisse un articolo per la Rivista Mensile del CAI intitolato “I Falliti”, nel quale, in un flusso di coscienza allo stesso tempo lucido e naif, attaccava l’esperienza dell’alpinismo classico come alienante e masochista, tesa ossessivamente verso la vetta e il “risultato”, imbevuta di uno spirito eroico che Motti denunciava come disumano. I “falliti” dell’articolo erano gli alpinisti stessi, che, presi dalla loro ossessione, si dimenticavano delle cose belle e importanti della vita (o meglio, di quello che Motti riteneva bello e importante).
Prevedibilmente, l’articolo scatenò un putiferio, come mai nessun altro scritto italiano di montagna prima (e dopo) di allora. Riletto oggi, “I Falliti” appare per quello che era veramente: non un’analisi dell’alpinismo del 1972 (assai più complesso e variegato di quanto Motti scriveva), bensì uno specchio del tormento e della nevrosi di Motti stesso. Uomo d’intelligenza e cultura incredibili, e di classe arrampicatoria superiore, per tutta la vita non riuscì a venire a capo di una serie di problemi personali che, nel 1983, lo spinsero a togliersi la vita. È altresì interessante notare come il ritratto proposto dai “Falliti”, cioè quello di una congrega di nevrotici ossessionati dalla “performance” a tutti i costi, in una corsa alla difficoltà divorziata da qualsiasi contesto culturale o estetico sia, molto ben adattabile a tanti “forzati del gesto” che popolano le pagine delle riviste arrampicatorie odierne.
La pietra lanciata da Motti scosse le acque abbastanza da far emergere un gruppo assai variegato e fluido di giovani talenti, che, con ambizioni e motivazioni diverse, si riconoscevano nell’invito ad esplorare frontiere diverse dell’arrampicare, ed erano di certo insofferenti all’atmosfera asfissiante e stantia dei CAI e della “Gerva” di allora (“un misto fra la ginnastica e la sacrestia” come ricorda Andrea Gobetti). Si è parlato di ’68 del gesto, ma il “Circo Volante” fu più vicino allo spirito del ’77 (ed in un certo senso a quello che fu poi lo spirito del punk), una ribellione permanente contro gli schemi precostituiti dell’alpinismo, un tentativo di “riprendersi la vita” della parete e di autogestire l’avventura arrampicatoria lontani da schemi imposti. Nomi come Giancarlo Grassi, Danilo Galante, Max Demichela, Andrea Gobetti, Roberto Bonelli, Paolo Lenzi (e tanti altri) si lanciarono, armati delle nuove (e allora controverse!) scarpette di arrampicata, all’assalto delle strutture di bassa quota delle Alpi Nord Occidentali, soprattutto quelle della Valle Dell’Orco, alzando di colpo (in parallelo ai gruppi “cugini” della Val di Mello e dell’Emilia Romagna) il livello tecnico di arrampicata italiana (ed europea!) e, in un modo nell’altro, lasciando un segno che non sarà cancellato tanto presto. “Cannabis Rock” racconta la loro storia.
Roberto Bonelli (foto d'epoca, fotogramma da Cannabis Rock)
Una storia, com’è naturale, fatta soprattutto di scalate. Il documentario è, più o meno, diviso in due segmenti, che si sovrappongono in modo asimmetrico. Nel primo, più “descrittivo”, i sopravvissuti (oltre a Motti, anche Grassi e Galante non sono più con noi) parlano di tutto quel che fu il “Circo Volante” fra il 1973 e il 1975, spesso direttamente dal fondo (o sopra) qualcuna delle vie che fecero l’epopea di quei giorni. Demichela, un personaggio simpatico e sornione, sale (in un artif molto “anni ‘70”) quella “Cannabis Rock” al Sergent (Valle Dell’Orco) che da il nome al film (“Un messaggio di rottura con… lo spigolo Bonatti!”). Bonelli affronta di nuovo, dopo trent’anni, la vicina “Fessura Della Disperazione” (una salita all’epoca di eccezionale pericolosità) concludendo in modo lapidario: “Dovevo essere proprio picio (i.e. scemo) a salire ‘sta roba senza protezioni”. E Ugo Manera, che non fece parte del “Circo Volante” ma fu grande amico di Motti, ripete la “Via Del Sole Nascente” al Caporal. In mezzo ci sono tanti discorsi su cosa furono quegli anni – il mito californiano, le scarpette, i (pessimi) rapporti con l’establishment alpinistico torinese, le piccole e grandi trasgressioni, le liti (qualche volta violente, vedi l’episodio del “pintun”!) e l’amicizia. In sottofondo, musica d’epoca – o che dell’epoca riprende lo stile - e citazioni colte da quelli che furono gli ispiratori letterari del Nuovo Mattino.
Tutti i film veramente degni di essere visti vivono di eccesso, e “Cannabis Rock” non fa eccezione. In questa prima parte, a tener banco (su posizioni totalmente opposte) sono due personalità singolari: Da una parte sta Emanuele Cassarà, giornalista di “Tuttosport” e scrittore di cose alpinistiche recentemente scomparso. Nell’economia del film, avrebbe dovuto dare voce a chi il “Circo Volante” lo vedeva da fuori. Invece, diventa di gran lunga la nota più stonata del film. Svaniti nel nulla l’intelligenza e la verve del giornalista e dello scrittore, rimangono solo una spocchia, un’arroganza e (paradossalmente) un conservatorismo terrificanti: sottolineati da serie di giudizi ingenerosi e in qualche punto assolutamente sbagliati (“Motti ha mandato a morire tanti ragazzi”, frase che pare abbia fatto insorgere Manera). Paradossalmente, Cassarà viene ricordato come l’uomo che ha sostenuto Andrea Mellano (qui usato troppo poco) nell’organizzazione delle storiche gare di Bardonecchia ’85, e quindi qualcuno che, in un certo modo, avrebbe dovuto apprezzare lo sforzo innovatore di Motti & C. Al contrario, ne sembra disprezzare i tratti idealistici (al di là di una compassione di maniera), e arriva al punto di lodare Bonelli per il suo rifiutarsi alla stampa, sottintendendo che il resto della congrega era fondamentalmente composto di frustrati alla ricerca di notorietà.
Antitetico a Cassarà, e immerso in una nuvola di fumo (vedere per credere) sta Andrea Gobetti, ex direttore di “Roc”, documentarista, speleologo, scrittore e pazzo furioso . Il commento di mia figlia al suo apparire è stato “Ammazza quanto fuma questo”, e temo che il pubblico non specializzato ricorderà “Cannabis Rock” più che altro per le Rizla di Gobetti e per il suo infinito quoziente di citabilità. Il mio preferito fra i tanti aneddoti che Andrea letteralmente “mette in scena” è il racconto di come lui e Demichela abbiano fatto la “semifinale per il peggior scalatore del Circo Volante” sulla “Gervasutti di sinistra” alla Parete Dei Militi (“la famosa Gervasutti-De Rege!” tuona Andrea con un accento piemontese che potrebbe scardinare il tricorno a Gianduia), e della rissa che ne nacque quando i due dovettero decidere chi era Gervasutti e chi De Rege. Divertente, divertentissimo, fin troppo, al punto che la follia Gobettiana minaccia veramente di strabordare e soffocare il resto del film (e non potrebbe essere altrimenti!).
Andrea Gobetti (da valdimello.it)
Questa prima parte soffre la mancanza di più spazio per i protagonisti scomparsi, soprattutto Giancarlo Grassi, forse la figura più interessante uscita da quella stagione, almeno dal punto di vista creativo (e che qui viene a malapena citato, pare complice lo scarso supporto che Fornaris ha avuto dalla famiglia di Giancarlo). Tutto sommato è una parte divertente e interessante, ma per chi non abbia almeno un’infarinatura sulla storia dell’arrampicata nel Nord Ovest, certi passaggi risultano incomprensibili. L’uso improprio di Cassarà come “voce antagonista” rispetto a quella dei protagonisti del Nuovo Mattino crea uno sbilanciamento a volte veramente duro da digerire – meglio sarebbe stato lasciare più spazio ad Andrea Mellano, che sicuramente condivide molto di quanto detto da Cassarà, ma lo avrebbe potuto affermare con maggiore autorevolezza. E Gobetti che recita Gobetti è divertente, ma in un certo senso è “solo” un film nel film.
Giancarlo Grassi
Fosse tutto qui, “Cannabis Rock” sarebbe un documentario carino, ma non memorabile. Il lavoro di Fornaris decolla veramente nella seconda parte, che è imperniata sul centro emozionale del documentario - la narrazione da parte di Laura Galante della morte del fratello Danilo, ucciso da un’improvvisa tempesta di neve il 4 maggio 1975, scendendo dal Grand Mantì, vicino a Grenoble, dopo aver scalato la via della Rampa in compagnia di Giancarlo Grassi. Il “Nuovo Mattino” non fu mai un club o un movimento omogeneo, ma un insieme molto variegato di amici legati dalla passione per l’arrampicata – la morte di Danilo per molti versi fu la fine di questo insieme.
Danilo Galante (fotogramma da Cannabis Rock, foto archivio famiglia Galante)
Su questo episodio “Cannabis Rock” poteva fallire miseramente ed invece, improbabilmente riesce . Laura (che nel 75 aveva 12 anni) racconta il giorno della morte del fratello maggiore come se fosse una storia di spettri, o un brutto sogno – il modo forse più vero con cui tendiamo a ricordare un grosso trauma. E’ tutto molto semplice e molto diretto, e perfino le immagini dei vecchi filmini che mostrano Danilo e Laura che giocano da piccoli non crea l’effetto manipolatorio di tante scene analoghe viste nei programmi della “tv del dolore”.
A contorno ci sono due sequenze, in qualche modo iconiche, che riassumono molto bene il senso più profondo di “Cannabis Rock”. La prima vede Adriano Trombetta impegnato sulla via dei Nani Verdi a Foresto – una linea resa leggendaria dalla prima “quasi libera” di Patrick Berhault nel 1980, episodio che ebbe una risonanza immensa nella neonata scena dell’arrampicata sportiva italiana. È una sequenza di fisicità brutale, quasi robotica - Adriano sale veramente con l’efficienza di una macchina da guerra, quasi senza emozione. In un certo modo, è il paradigma visivo di quello che è molta arrampicata odierna –, volenti o nolenti, figlia di quel “Nuovo Mattino”.
In completo contrasto, in chiusura vediamo un arrampicatore anonimo (ma il naso è inconfondibile…) dal volto indefinito e mai inquadrato chiaramente, prepararsi per salire una via, armato di un paio di vecchie EB e una fascia nei capelli. La via è “Itaca nel Sole” al Caporal, e il climber sale le placche letteralmente in un mare di luce, che lo trasfigura e lo scolora. La macchina da presa si ferma sui dettagli – dita che cercano appigli, piedi delicatamente sistemati sugli appoggi. Il gesto dell’arrampicata è ripulito di qualsiasi significato competitivo, di qualsiasi considerazione sulla difficoltà e il grado – è, semplicemente, il gesto di qualcuno (o qualcosa) che si fa strada a fatica in un oceano di roccia. Il dialogo di sottofondo è tratto da un libro di uno scritto di Motti (Fornaris fortunatamente ci evita la banalità di Daumal e del “Monte Analogo”), e la scritta che per un attimo si vede in sovraimpressione è “Zero The Hero”, titolo di uno degli ultimi e più controversi scritti del “Principe”. Anche qui, “Cannabis Rock” riesce miracolosamente a cavalcare il confine fra il sublime e lo pseudo-filosofico con rara intelligenza – o forse, sarebbe meglio dire, con ancor più rara follia.
[Luca Signorelli, 26/10/2006 su Planetmountain]
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Infine, quello che segue è il primo dei “Dialoghi con Leucò” di Cesare Pavese.
La prima parte di questo brano (i primi 4 scambi di battute fra Issione e Nefele, la Nube) viene letta nel film. Non a caso: c'è una nuova legge sui monti: la sorte, il limite.
Il mito narra che «Issione si invaghì di Era e tentò di farle violenza: quando Era riferì l'accaduto, Zeus volle sapere se i fatti si erano svolti in tale modo: allora plasmò una nube con l'aspetto di Era e la pose a giacere accanto a Issione. Quando poi Issione si vantò di essersi congiunto con Era, Zeus lo legò a una ruota, sulla quale è trascinato per l'aria dal soffio dei venti. Tale è il castigo che sconta, e la nube fecondata da Issione generò Centauro» (Apollodoro, Epitome 1, 20)
La nube porta ad Issione il messaggio che il dio Pan è morto e che novus saecolorum nascitur ordo: inizia la lenta trasformazione dell'uomo che esce dal mondo istintivo e prelogico per avviarsi verso la luce della storia. Ma, come scrive Lorenzo Mondo, "... nelle parole della Nube amante, che cerca d'infrenare la giovanile baldanza di Issione, già s'intravede la ruota e il Tartaro: prezzo della raggiunta consapevolezza è la morte, non più cambiamento irriflesso della propria natura, un "versarsi in tutte le cose", ma "un amaro sapore che dura e si sente".
Issione è ingenuo e spavaldo, si ritiene padrone del proprio destino, e non è cosciente delle sofferenze che lo attendono. Il suo errore è stato quello di elevare impunemente gli occhi ad una dea.
Che cosa significa tutto ciò? Qual è la relazione fra questo mito ed il mondo dei ragazzi del Nuovo Mattino? Tante sono le associazioni possibili: è bello che ognuno ci veda le sue, e le tenga per sé.
Mi limito a dire che Pavese, in un foglietto di annotazioni che dà un riferimento tematico ad ogni racconto, accanto a "La Nube" scrisse audacia e sconfitta.
E a riportare uno stralcio scritto da Gobetti (riportato su Fuorivia da Luca Visentini e scovato per puro caso proprio stamattina, qualche ora dopo aver pubblicato il post... quelle coincidenze che non finiscono mai di stupirmi e di darmi gioia):
«... Goffo, ma speleo, riuscii a farmi mostrare da molti arrampicatori la loro parte più nascosta, l'ombra della sensibilità mentale a cui gli sportivi negavano il valore se non addirittura l'esistenza.
Ero un redattore anomalo, altri badavano fingendosi umili soprattutto alle loro gesta, io preferivo avvicinarmi agli eroi come complice, aiutarli ad organizzare per scritto i loro pensieri e macerare i miei nella realtà delle esperienze loro.
Quando nacque ROC, a metà degli anni '80, si arrampicava ancora sotto il cielo, ma in onor dei tempi si cominciò purtroppo a parlar di soldi tutto il giorno.
L'avere invase il campo dell'essere ed è sotto il peso di quei soldi, soprattutto parlati, che l'arrampicata estrema prese la via della città palestre. Scivolò dal panorama al garage per una piccola svista...»
LA NUBE C’è una legge, Issione, cui bisogna ubbidire.
ISSIONE Quassù la legge non arriva, Nefele. Qui la legge è il nevaio, la bufera, la tenebra. E quando viene il giorno chiaro e tu ti accosti leggera alla rupe, è troppo bello per pensarci ancora.
LA NUBE C’è una legge, Issione, che prima non c’era. Le nubi le aduna una mano più forte.
ISSIONE Qui non arriva nessuna mano. Tu stessa, adesso che è sereno, ridi. E quando il cielo si oscura e urla il vento, che importa la mano che ci batte come gocciole? Accadeva già ai tempi che non c’era padrone. Nulla è mutato sopra i monti. Noi siamo avvezzi a tutto questo.
LA NUBE Molte cose sono mutate sui monti. Lo sa il Pelio, lo sa l’Ossa e l’Olimpo. Lo sanno monti più selvaggi ancora.
ISSIONE E che cosa è mutato, Nefele, sui monti?
LA NUBE Né il sole né l’acqua, Issione. La sorte dell’uomo, è mutata. Ci sono dei mostri. Un limite è posto a voi uomini. L’acqua, il vento, la rupe e la nuvola non sono più cosa vostra, non potete più stringerli a voi generando e vivendo. Altre mani ormai tengono il mondo. C’è una legge, Issione.
ISSIONE Quale legge?
LA NUBE Già lo sai. La tua sorte, il limite…
ISSIONE La mia sorte l'ho in pugno, Nefele. Che cosa è mutato? Questi nuovi padroni posson forse impedirmi di scagliare un macigno per gioco? o di scendere nella pianura e spezzare la schiena a un nemico? Saranno loro più terribili della stanchezza e della morte?
LA NUBE Non è questo, Issione. Tutto ciò lo puoi fare e altro ancora. Ma non puoi più mischiarti a noialtre, le ninfe delle polle e dei monti, alle figlie del vento, alle dee della terra. E' mutato il destino.
ISSIONE Non puoi più... Che vuol dire, Nefele?
LA NUBE Vuol dire che, volendo far questo, faresti invece delle cose terribili. Come chi, per carezzare un compagno, lo strozzasse o ne venisse strozzato.
ISSIONE Non capisco. Non verrai più sulla montagna? Hai paura di me?
LA NUBE Verrò sulla montagna e dovunque. Tu non puoi farmi nulla, Issione. Non puoi far nulla contro l'acqua e contro il vento. Ma devi chinare la testa. Solamente così salverai la tua sorte.
ISSIONE Tu hai paura, Nefele.
LA NUBE Ho paura. Ho veduto le cime dei monti. Ma non per me, Issione. Io non posso patire. Ho paura per voi che non siete che uomini. Questi monti che un tempo correvate da padroni, queste creature nostre e tue generate in libertà, ora tremano a un cenno. Siamo tutti asserviti a una mano più forte. I figli dell'acqua e del vento, i centauri, si nascondono in fondo alle forre. Sanno di essere mostri.
ISSIONE Chi lo dice?
LA NUBE Non sfidare la mano, Issione. E' la sorte. Ne ho veduti di audaci più di loro e di te precipitare dalla rupe e non morire. Capiscimi, Issione. La morte, ch'era il vostro coraggio, può esservi tolta come un bene. Lo sai questo?
ISSIONE Me l'hai detto altre volte. Che importa? Vivremo di più.
LA NUBE Tu giochi e non conosci gli immortali.
ISSIONE Vorrei conoscerli, Nefele.
LA NUBE Issione, tu credi che sian presenze come noi, come la Notte, la Terra o il vecchio Pan. Tu sei giovane, Issione, ma sei nato sotto il vecchio destino. Per te non esistono mostri ma soltanto compagni. Per te la morte è una cosa che accade, come il giorno e la notte. Tu sei uno di noi, Issione. Tu sei tutto nel gesto che fai. Ma per loro, gli immortali, i tuoi gesti hanno un senso che si prolunga. Essi tastano tutto da lontano con gli occhi, le narici, le labbra. Sono immortali e non san vivere da soli. Quello che tu compi o non compi, quel che dici, che cerchi - tutto a loro contenta o dispiace. E se tu li disgusti - se per errore li disturbi nel loro Olimpo - ti piombano addosso, e ti dànno la morte - quella morte che loro conoscono, ch'è un amaro sapore che dura e si sente.
ISSIONE Dunque si può ancora morire.
LA NUBE No, Issione. Faranno di te come un'ombra, ma un'ombra che rivuole la vita e non muore mai più.
ISSIONE Tu li hai veduti questi dèi?
LA NUBE Li ho veduti... O Issione, non sai quel che chiedi.
ISSIONE Anch'io ne ho veduti, Nefele. Non sono terribili.
LA NUBE Lo sapevo. La tua sorte è segnata. Chi hai visto?
ISSIONE Come posso saperlo? Era un giovane, che traversava la foresta a piedi nudi. Mi passò accanto e non mi disse una parola. Poi davanti a una rupe scomparve. Lo cercai a lungo per chiedergli chi era - lo stupore mi aveva inchiodato. Sembrava fatto della stessa carne tua.
LA NUBE Hai veduto lui solo?
ISSIONE Poi in sogno l'ho rivisto con le dee. E mi parve di stare con loro, di parlare e di ridere con loro. E mi dicevano le cose che tu dici, ma senza paura, senza tremare come te. Parlammo insieme del destino e della morte. Parlammo dell'Olimpo, ridemmo dei ridicoli mostri...
LA NUBE O Issione, Issione, la tua sorte è segnata. Adesso sai cos'è mutato sopra i monti. E anche tu sei mutato. E credi di essere qualcosa più di un uomo.
ISSIONE Ti dico, Nefele, che tu sei come loro. Perché, almeno in sogno, non dovrebbero piacermi?
LA NUBE Folle, non puoi fermarti ai sogni. Salirai fino a loro. Farai qualcosa di terribile. Poi verrà quella morte.
ISSIONE Dimmi i nomi di tutte le dee.
LA NUBE Lo vedi che il sogno non ti basta già più? E che credi al tuo sogno come fosse reale? Io ti supplico, Issione, non salire alla vetta. Pensa ai mostri e ai castighi. Altro da loro non può uscire.
ISSIONE Ho fatto ancora un altro sogno questa notte. C'eri anche tu, Nefele. Combattevamo coi Centauri. Avevo un figlio ch'era il figlio di una dea, non so quale. E mi pareva quel giovane che traversò la foresta. Era più forte anche di me, Nefele. I centauri fuggirono, e la montagna fu nostra. Tu ridevi, Nefele. Vedi che anche nel sogno, la mia sorte è accettabile.
LA NUBE La tua sorte è segnata. Non si sollevano impunemente gli occhi a una dea.
ISSIONE Nemmeno a quella della quercia, la signora delle cime?
LA NUBE L'una o l'altra, Issione, non importa. Ma non temere. Starò con te fino alla fine.
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