«Viviamo in gabbie con le porte aperte», diceva un tale.
Quanto ci sentiamo vivi, quando ce ne rendiamo conto e mettiamo fuori la testa.
Ricordo distintamente quelle pagine.
Il primo libro di montagna che mi capitò fra le mani; avrò avuto 6 o 7 anni.
Quante volte l'ho sfogliato, lustrandomi gli occhi dinanzi alle foto e rileggendo in modo quasi morboso le didascalie.
Quante e quante volte mi sono emozionato ridivorando avidamente quelle poche righe.
Quante e quante volte mi sono poi ritovato sui sentieri con il naso all'insù a scrutare, in un misto di timore ed attrazione, quei puntini colorati sulle pareti.
«Chissà se mai arriverà un giorno in cui avrò il coraggio di fare qualcosa del genere...»
Tanti anni dopo, eccomi legato ed imbragato a tirare da primo su una sorellina minore della Triade, immergendomi in uno dei santuari storici del sesto grado.
La parete su cui si è consumata l'impresa che tanto mi aveva impressionato è proprio lì dietro. Mentre scalo non la vedo, ma ne intuisco le proporzioni smisurate ed il vuoto che si agita altezzoso ai suoi piedi.
Vedo invece delle cordate sullo Spigolo Giallo, altra via leggendaria nonostante le difficoltà un po' più contenute, e penso: «Chissà se arriverà mai un giorno in cui avrò il coraggio di fare qualcosa del genere...»
Sono passati solo due mesi. Trascinato da compagni molto più esperti di me, mi ritrovo catapultato quasi inconsapevolmente ai piedi della muraglia Nord. Poche volte mi sono sentito così piccolo, così indifeso.
Tutto intorno è luce, ma noi siamo sommersi da un'ombra sorda che allaga i polmoni; l'incombenza della parete mi toglie il respiro.
Sono un calciatore di terza categoria teletrasportato sul campo di un Santiago Bernabeu gremito di tifosi, appena prima del fischio d'inizio della finale di Coppa dei Campioni.
Ma sto correndo verso la panchina; la sera prima con Guido sono stato molto chiaro: "Io vengo, ma solo se la via la tiri tutta tu. Non mi sento minimamente in grado."
Attacchiamo.
La via è subito difficile, tiro i primi due chiodi su un traverso delicato. Sul tiro seguente vedo Guido impegnato piuttosto severamente in un diedro e sul successivo muro atletico. Arrivo in sosta con i muscoli tesi, ed in quel momento qualcosa mi si accende dentro.
D'improvviso.
Un rintocco secco nel silenzio.
Questa volta nemmeno per un istante mi ero chiesto: «chissà se arriverà mai un giorno in cui avrò il coraggio di fare qualcosa del genere...»
Per un attimo, provo a valutare; poi sento che devo solo scegliere. Sì o no. Senza pensare.
«Guido, vado io.»
«Te la senti davvero?»
«Sì... provo.»
Muovo i primi passi e attorno a me tutto si spegne.
Sento solo il mio respiro; il suo ritmo, inizialmente affannoso, si fa regolare, ed asciuga piano piano il vuoto che ho attorno.
Arrivo in sosta senza mai fermarmi... era un tiro di VI grado.
Mi assicuro e per un attimo stento a credere a quello che ho appena fatto; il Lello, davanti a me, mi guarda con ammirazione.
Poi la concentrazione riprende possesso della mia mente e rimane solo la roccia; da quel momento io e Guido saliamo in rigorosa alternata.
Già oltre metà parete, ancora qualche tiro impegnativo ad attenderci ma ormai fuori dalle maggiori difficoltà, tutto a un tratto prendo piena consapevolezza.
Sto facendo qualcosa che mai avrei immaginato, oltrepassando un limite da cui pensavo di essere ben lontano.
Sto vivendo un sogno ampiamente al di là di ogni aspettativa; è arrivato davvero, quel giorno.
Ho avuto la prontezza di comprendere che era il momento giusto anche senza averne coscienza, assecondando quell'istinto che tanto spesso mi ha parlato in una lingua dimenticata.
Rivedo un sentiero sui prati, un bambino con la bocca spalancata e gli occhi rapiti.
Fino ad oggi quel bambino ero io... ora sono l'immagine che riempie i suoi occhi luccicanti.
Ed anche i miei occhi diventano lucidi, faccio fatica a trattenere le lacrime.
Mi sento come una farfalla che, appena uscita dal bozzolo, ancora incredula fatica a riconoscersi.
Mi sento dentro una vita prepotente, selvaggia.
Come un risveglio.
Ora sorrido ricordando quella salita... considerata oggettivamente è una scalata come tante, impegnativa ma alla portata di molti.
Per me è stata un'epifania; ha fatto cadere il mio sguardo su quella porta aperta.
Certo, poi è facile ed anzi inevitabile dimenticare, una volta che le luci del palco si sono spente.
Ma sono momenti che ti cambiano.
Lasciano un segno, un odore.
Magari non più intenso, e neppure persistente.
Ricorrente.
Ricorrente è il termine adatto; negli anni successivi l'ho sentita spesso, la scia lasciata da quel giorno.
La gabbia è aperta.
Noi siamo là fuori.
(ricordi di Agosto 2001, fermati sulla carta pochi anni dopo)
Bello. Ognuno di noi, scalando, una volta o l'altra si è trovato dentro ad un sogno. Come sdoppiato, sentirsi lì e vedersi lì, nello stesso momento, con gli occhi di chi aveva sognato dentro un corpo che non sai nemmeno bene se ti appartiene.
Non è solo la scalata che può darti questo, ma è uno dei motivi per cui scaliamo.
Scritto da: buzz | 07/20/2011 a 03:03 p.
Bel blog veramente! Ero a fare una via in tre cime ieri. La paura del giorno prima è svanita, sotto la parete tutto si appiattisce per me. Le emozioni si placano, esiste solo il movimento e una sequenza da scoprire. Quando arrivi in cima al tiro dopo una concentrazione incredibile che ti porta a seguire la tua serie di prese, li io esco dalla mia gabbia. In quei momenti, per me, la percezione delle cose cambia.
Scritto da: rasta | 08/06/2011 a 09:47 m.
bello.
Scritto da: gabbz | 09/01/2011 a 08:03 p.