Nel 1969 esce, sulla prestigiosa rivista Ascent, un articolo che costituisce una pietra miliare della letteratura alpinistica, fonte di ispirazione per una generazione (e non solo) di scalatori: "The climber as visionary", di Doug Robinson. Vi propongo qui la scansione dell'articolo originale (dalla fornita biblioteca di Batman alias Gianni Battimelli... sì, l'è semper lü!), una traduzione di Marco Giudirel con il contributo di Davide Psycho e il cesello di Marina Ansia Kammerlander (questo team - trade mark Fuorivia - ha fatto davvero un gran bel lavoro!) e per finire il testo originale in inglese (sulla scansione la lettura è molto faticosa).
In questo post inserisco solo l'articolo, e dedicherò un post successivo ad approfondimenti, collegamenti, commenti e vicende correlate.
Nel 1914 George Mallory, destinato in futuro a diventare celebre per una lapidaria definizione del perché dell’arrampicata ("perché le montagne sono lì" – ndt) pubblicò sul Climber’s Club Journal un articolo intitolato “L’alpinista come artista”. Nel tentativo di spiegare il senso di superiorità che in quanto arrampicatore nutriva nei confronti degli altri sportivi, affermò che l’arrampicatore è un artista. Scriveva che “una giornata ben spesa nelle Alpi è come una grande sinfonia” e giustificava l’assenza di un risultato tangibile – dagli artisti ci si attende la produzione di opere d’arte visibili dagli altri – spiegando che “gli artisti in questo senso, non si distinguono per la potenza con la quale esprimono emozioni, ma per la potenza con la quale percepiscono le esperienze emotive di cui l’Arte stessa è fatta… gli alpinisti sono tutti artistici… perché coltivano l’esperienza emozionale senza altri fini”.
L’asserzione di Mallory giustifica in pieno l’alta considerazione che nutriamo per l’arrampicata come attività, ma non concede spazio alla distinzione fra chi apre una via e chi si limita ad ammirarla.
L’alpinismo può produrre risultati artistici tangibili che sono poi sotto l’occhio di tutti. Una via è un’espressione artistica sul fianco di una montagna, accessibile allo sguardo e quindi all’ammirazione o alla critica da parte degli altri scalatori. Proprio come la linea di una via determina il suo valore estetico, la maniera nella quale è stata salita costituisce il suo stile. Una scalata ha il valore di un pezzo artistico e il suo creatore è responsabile per il suo stile e il suo significato proprio come un artista. Riconosciamo gli arrampicatori particolarmente dotati nel creare linee estetiche e potenti, e li rispettiamo per questo loro talento.
Mallory non si spinse abbastanza lontano nell’attribuire funzioni artistiche all’atto di realizzare nuove salite eccezionali; io penso anche che egli usi la parola artista in modo troppo esteso, quando intende includervi la percezione estetica insieme alla creazione estetica.
Per quello che riguarda la percezione, che è essenzialmente passiva e ricettiva, piuttosto che intraprendente e creativa, io userei il termine “visionario”. Non visionario nel senso comune di sogno ozioso e irrealizzabile, e di costruzione di castelli in aria, ma piuttosto nel senso della capacità di percepire con grande intensità gli oggetti e le azioni dell’esperienza ordinaria, di andare oltre, di coglierne le meraviglie e i misteri, le forme, gli umori e i meccanismi. Essere un visionario in questo senso non comporta nulla di soprannaturale o ultraterreno; consiste nell’avere una visione nuova delle cose familiari del mondo.
Uso molto semplicemente la parola visionario, che prende origine da visione che significa vedere (ma anche capire, ndt), sempre con la massima intensità ma mai oltre il limite del presente reale e fisico. Per utilizzare un esempio familiare è difficile ammirare la "Notte stellata" di Van Gogh senza percepire la qualità visionaria che l’artista esercita nel guardare il mondo. Non ha dipinto nulla che non fosse nella scena originale, tuttavia altri potrebbero avere problemi a riconoscere quello che ha dipinto, e la differenza sta nell’intensità della sua percezione, ovvero nell’esperienza visionaria. Van Gogh dipinge trovandosi in uno stadio più elevato della coscienza.
Anche gli scalatori hanno le loro Notti stellate. Prendiamo questo passaggio del racconto di Allen Steck sulla salita al Monte Logan per la Cresta del colibrì: “Mi voltai un attimo e fui completamente sopraffatto dalla contemplazione della bellissima sensuale semplicità della neve soffiata dal vento.
La bellezza di quel momento, la forma e i movimenti della neve soffiata gli avevano trasmesso un’emozione talmente potente, così meravigliosamente completa, che l’arrampicatore si era perduto in essa. Si dice sia durato un solo istante, eppure lui fu assorbito al punto di smarrirsi, cosicché l’esperienza fu attraversata dai venti dell’eternità.
Un secondo esempio proviene dal racconto del settimo giorno della prima ascensione, della Muir Wall su El Capitan, durata otto giorni ed effettuata in condizioni difficili. Scrive Yvon Chouinard sull’American Alpine Journal del 1966: “Arrivammo a cogliere tutto ciò che ci circondava, con sensi resi più acuti. Ogni singolo cristallo spiccava sul granito, in grande rilievo. Le forme mutevoli delle nuvole non cessavano mai di attirare la nostra attenzione. Per la prima volta ci accorgemmo di minuscoli insetti che erano dappertutto sulla parete, ed erano talmente piccoli da essere a stento visibili. In sosta ne osservai uno per quindici minuti, lo guardavo muoversi e ne ammiravo il colore rosso brillante.
Come ci si potrebbe mai annoiare con così tante belle cose da vedere e sentire? Questa fusione con l’ambiente , questa percezione ultrapenetrante, ci diedero una sensazione di appagamento quale non avevamo sperimentato da anni”.
In questi brani appaiono evidenti le caratteristiche che costituiscono l’esperienza visionaria dell’arrampicatore: la travolgente bellezza di molti oggetti ordinari – nuvole, granito, neve – nell’esperienza dell’arrampicatore, una sensazione di rallentamento e quasi di scomparsa del tempo, una sensazione di appagamento, una sensazione oceanica di suprema bastevolezza del presente. Sebbene tenui nella sostanza, queste sensazioni sono abbastanza forti da intromettersi potentemente nel mezzo di situazioni pericolose e da rimanere là, rimpiazzando temporaneamente persino l’apprensione e la spinta a ottenere il risultato.
Le parole di Chouinard cominciano a darci un’idea dell’origine e del carattere di queste esperienze. Inizia facendo riferimento ai “sensi più ricettivi”. Che cosa ha reso più ricettivi i loro sensi? Il tutto sembra direttamente collegato a quello che stavano facendo, per loro era la settima giornata consecutiva di assoluta concentrazione. Arrampicare tende ad indurre esperienze visionarie. Dovremmo indagare quali siano le caratteristiche dell’arrampicata che predispongono a queste esperienze.
L’arrampicata richiede profonda concentrazione. Non conosco nessuna altra attività in cui un intero pomeriggio possa facilmente essere cancellato, senza nessuna traccia. O un rimpianto. Mi sono piombate in testa bufere, e pareva che fossi addormentato, anche se so che per tutto il tempo sono stato in preda a una profonda concentrazione, attento a pochi metri quadrati di roccia e poi a quelli successivi. Sono uscito per il campo a fare boulder e sono tornato trovando che lo stufato era bruciato. A volte in pianura quando è difficile lavorare sono invidioso della facilità di concentrazione che si ha arrampicando. Questa concentrazione può essere intensa, ma non ha la stessa intensità dei momenti visionari, è solo un prerequisito.
La concentrazione non è continua, è spesso intermittente e sporadica, a volte ciclica e ritmica. Dopo aver fronteggiato per un po’ i pochi metri quadri di roccia che ci stanno davanti, la corda finisce ed è tempo di fare sosta. Il tempo in sosta è un intermezzo nella concentrazione, un’interruzione, una piccola possibilità di rilassarsi. Lo scalatore passa da una postura aggressiva e produttiva a un’altra passiva e percettiva, da agente a osservatore, e di fatto da artista a visionario. La giornata di arrampicata si svolge attraverso un ciclo di arrampicata-sosta-arrampicata-sosta con una serie regolare di concentrazioni e rilassamenti. Ed è di uno di questi momenti di rilassamento che Chouinard sta parlando. Quando gli arti si appoggiano alla roccia e i muscoli si contraggono, anche la volontà si concentra, mentre in sosta, legati a un arbusto di quercia, i muscoli si rilassano e anche la volontà, che era rimasta concentrata sui movimenti, si espande e torna a vedere il mondo, che appare nuovo e luminoso, creato di fresco, perché prima aveva davvero cessato di esistere. Per contrasto, lo svantaggio delle abituali attività a basso impegno è che non riescono a mettere il mondo fuori dalla porta, il mondo non cessa quindi di essere familiare e finisce per essere di conseguenza ignorato. Arrampicare concentratissimi significa escludere tutto il mondo: e quando riappare sarà un’esperienza strana e meravigliosa nella sua novità.
Il rilassamento in sosta non è totale: l’arrampicata non è finita, ci sono ancora tiri davanti, persino il più difficile, potrebbero volerci ancora giorni. Ci accorgiamo che se il ciclo di intensa contrazione prosegue, e quando questo ciclo diventa routine quotidiana, il rilassamento in sosta produce esperienze visionarie più frequenti e intense. Non è un caso che l’esperienza riferita da Chouinard sia accaduta alla fine dell’arrampicata: stava ponendo i suoi presupposti da sei giorni. La cima, troncando il ciclo e regalando la liberazione finale dalle tensioni dovrebbe offrire all’arrampicatore alcuni dei momenti più intensi e uno sguardo alla letteratura dimostra che è proprio così. La vetta è anche una liberazione dal deserto sensoriale dell’arrampicata: dalla nuda concentrazione sulla configurazione della roccia passiamo alle ricchezza estetica della cima. Ma c’è ancora la discesa di cui preoccuparsi, un'altra contrazione della concentrazione a cui seguirà un rilassamento alla base della parete.
Seduti su un tronco ci togliamo le scarpe da arrampicata e infiliamo gli scarponi. Guardiamo la valle e siamo pervasi da un’oceanica sensazione di lucidità, distacco, unione e fusione. E’ ciò che resta tra una scalata e la successiva, da un giorno sulle bollenti chiare pareti a quello successivo, tuttavia segnato da sere scure come la pece a Camp 4.
Quando un percorso è stato tracciato diviene più familiare ed è più facile seguirlo una seconda volta, e lo diventa ancor di più in viaggi successivi. La soglia è stata abbassata. La pratica giova sia alla facoltà visionaria dell’arrampicatore che alla sua tecnica in fessura. E si applica anche al di fuori delle scalate. Secondo John Harlin, anche se lui sta parlando di desideri e non di visioni, l’esperienza può essere “presa in prestito e proiettata”. Si applicherà alla vita dell’arrampicatore in generale, alle sue ore banali in pianura, ma sarà stata l’arrampicata a insegnargli a essere visionario. Se non vogliamo darci troppa importanza, nel prepararci consapevolmente a un’esperienza visionaria, sarà bene ricordare che la bellezza incredibile delle montagne è sempre a portata di mano, sempre pronta a sospingerci nella consapevolezza.
L’ampiezza di questi cicli è molto variabile. Anche se il ciclo della lucidità si chiude tra un tiro e l’altro, altre volte ci vogliono giorni per chiudere un intero ciclo, altre volte ancora la cosa può essere quasi istantanea, come quando tirando un appiglio dopo un istante di incertezza e dubbio, senti all’improvviso il calore del sole attraverso la maglietta e senza esitare ti allunghi alla presa sucessiva.
Non è detto che l’alterazione della percezione sia intensa. Un piccolo cambiamento può essere egualmente profondo. Il divario tra guardare senza vedere e guardare avendo una vera visione è a volte talmente piccolo che possiamo passare da uno stato all’altro molte volte, nella vita di tutti i giorni.
Ulteriori innalzamenti della facoltà visionaria sono rappresentati da percezioni più profonde di ciò che è già sotto i nostri occhi. La visione è vedere intensamente. La visione è vedere quello che è profondamente compenetrato, e seguire questo processo porta ad una maggiore consapevolezza dell’ambiente, intuitiva piuttosto che scientifica. Un’ecologia alla John Muir, che parte non dal concetto generale di alberi, rocce, aria, ma piuttosto proprio da quel dato albero con quel nodo sul tronco, dalle rocce come le vide Chouinard, supremamente distaccate e distanti, riflettenti la loro luce perfetta, e da quell’aria che soffia pulita e rovente dal deserto orientale e che quando si riversa sul bordo della valle per proseguire verso il Pacifico porta la fragranza dei campi di neve del Dana Plateau e delle interminabili cime degli alberi di Toulomne.
Le alterazioni visionarie nella mente degli arrampicatori hanno una base fisiologica. L’alternanza di speranza e paura di cui si parla nei loro racconti descrive stati emotivi che hanno una base biochimica. Questi meccanismi psicologici sono stati utilizzati per millenni da profeti e mistici, e solo per pochi secoli dagli scalatori. Due meccanismi complementari operano indipendentemente: il livello di anidride carbonica e quello della decomposizione dell’adrenalina: il primo derivante dallo sforzo fisico ed il secondo dall’apprensione. Durante la fase attiva dell’arrampicata l’organismo è sottoposto a un duro lavoro: aumenta la concentrazione di CO2 (debito di ossigeno) e si rilascia adrenalina in previsione di difficoltà o movimenti pericolosi, in modo che quando l’arrampicatore approda alla sosta alla fine del tiro si ritrova in debito di ossigeno e con una scorta di adrenalina non necessaria. Il debito di ossigeno si manifesta nei muscoli sotto forma di acido lattico, un vero veleno cellulare, che potrebbe anche essere quello che provoca visioni mentali. L’attività visionaria può essere indotta sperimentalmente somministrando CO2, e questo fenomeno potrebbe spiegare il ruolo del canto in ipoventilazione nelle chiese medioevali così come del controllo della respirazione nelle religioni orientali. L’adrenalina, trasportata dalla circolazione sanguigna in tutto il corpo, è un prodotto instabile se non utilizzato, e presto comincia a decomporsi formando altre sostanze chimiche, la cui struttura ricorda da vicino alcune droghe psichedeliche, che potrebbero aiutare a mettere in luce il meccanismo di azione di questi agenti di espansione mentale. Vediamo che l’attività fisica di arrampicare accoppiata con l’ansia, produce dei cambiamenti chimici nel corpo che sono prodepeutici all’esperienza visionaria. C’è un altro fattore con azione a lungo termine che potrebbe cominciare a rivelarsi nel racconto di Chouinard: l’alimentazione. Sia il semplice digiuno sia la carenza di vitamine tendono a preparare il corpo, apparentemente indebolendolo, all’esperienza visionaria. Questa insufficienza vitaminica provoca un basso livello di acido nicotinico, una delle vitamine del complesso B e noto agente antipsicotico: quindi anche questo fattore alimenterebbe l’esperienza visionaria. Chouinard accenna più volte nel suo racconto alle razioni alimentari ridotte. Per un ulteriore disamina dei meccanismi fisiologici che conducono allo stato visionario, ci sono due saggi di Aldous Huxley: “Le porte della percezione” e “Paradiso e inferno”.
Esiste un’interessante relazione tra lo stato visionario dell’arrampicatore e la sua controparte nella subcultura limitrofa dei consumatori di droghe. Queste droghe sono sempre più comuni e molti giovani per la prima volta nella storia arrivano all’arrampicata da un punto di vista già avvantaggiato sull’esperienza visionaria. A queste droghe sono stati attribuiti una serie di nomi erronei sulla base di falsi modelli di azione: psicotomimetici, per la supposta capacità di simulare psicosi, e allucinogeni, visto che le allucinazioni erano ritenute la realtà centrale dell’esperienza da loro indotta. Il loro nome attuale significa invece semplicemente manifestazione della mente, concetto finalmente naturale. Queste droghe forniscono alla gente una finestra aperta sull’esperienza visionaria. Essi ritornano dall’esperienza sapendo che esiste un luogo dove gli oggetti delle sensazioni ordinarie ricordano loro molte esperienze spontanee o di picco e in questo modo confermano o danno luogo a nuove serie di osservazioni. Ma finisce tutto qui. Non c’è ritorno alla realtà intensificata, alla suprema sufficienza del momento presente, La finestra si è richiusa e non può essere nemmeno più ritrovata senza ricorrere alla droga.
Non sono affatto disposto a dire che i consumatori di droghe comincino ad arrampicare per cercare quella finestra. Non potrebbe venir loro in mente. Chiunque non sia avvezzo a un’attività fisica disciplinata potrebbe avere dei problemi ad immaginare che essa produca qualcosa di più che semplice sudore. Ma quando due culture si sovrappongono, e un giovane arrampicatore comincia ad accorgersi della similitudine tra i risultati visionari risultanti dalla sua disciplina arrampicatoria e la sua precedente vita visionaria indotta dalle droghe, allora è sulla soglia del controllo. Ora c’è un chiaro percorso di disciplina, che conduce alla finestra. Consiste in deserto sensoriale, nello sforzo intenso e concentrato, in cicli alternati di concentrazione e rilassamento. Questo percorso non è esclusivo dell’arrampicata, naturalmente, ma qui noi stiamo riflettendo sulle peculiarità che gli elementi del percorso assumono in essa. Io lo chiamo “La lenta strada benedetta”, perché anche se abbisogna di tempo e di sofferenza, è una via allo stato visionario che non gode di facilitazioni, e nel seguirla l’arrampicatore si ritroverà meglio preparato ad apprezzare la visione in sé, e nel ritornare gradualmente e con gli occhi ben aperti allo stato ordinario di veglia conserverà il ricordo di dov’è la finestra, come aprirla, e porterà con sé alcune delle esperienze vissute.
La lenta strada benedetta garantisce che l’anima dell’arrampicatore, temprata dalla grande esperienza che ne ha fatto un visionario, sia stata affinata in modo da poter gestire la sua attività visionaria rimanendo equilibrato ed attivo (l’emarginazione, che è sostanzialmente uno stato improduttivo, è il risultato di un’esagerata attività visionaria priva di una corrispondente crescita della personalità). L’arrampicata che lo ha preparato a essere un visionario lo ha anche preparato a gestire le sue visioni. Questo non è tuttavia un cambiamento così drammatico. All’inizio è simile al vedere invece che semplicemente guardare. Per sperimentare un cambiamento permanente nella percezione possono essere necessari anni di disciplina.
Un potenziale trabocchetto è percepire la disciplina de La lenta strada benedetta secondo la ferrea tradizione dell’etica protestante: non può funzionare. L’arrampicata fornisce tutto il necessario rigore della disciplina senza che sia necessario aggiungerne. E quando la facoltà visionaria emerge, quello che è necessario non è un ulteriore sforzo di disciplina ma uno sforzo di rilassamento, una sottomissione al mondo così meraviglioso, consolatorio e pervasivo.
Ho cominciato a prendere in considerazione queste idee nel 1965 in Yosemite con Chris Fredrick. Avvertendo una similitudine di esperienze, o perlomeno un approccio simile alle esperienze, siamo stati seduti a discorrere molte notti insieme, al limitare del campo degli scalatori, e abbiamo trascorso alcuni giorni sperimentando le nostre parole nella gioia del movimento al sole. Chris ha cominciato ad interessarsi al Buddismo Zen, e quando mi ha detto della sua religione orientale sono rimasto stupito di non aver mai sentito parlare in precedenza di un sistema che calzava così perfettamente alla realtà circostante senza che fosse necessario nessun aggiustamento o stiracchiamento. Se ben ricordo non abbiamo mai menzionato l’esperienza visionaria in quanto tale, anche se nella sostanza non è stata mai lontana dalle nostre riflessioni. Siamo penetrati in uno di quegli stati mentali paralleli al punto che ora per me è difficile riferire che cosa tirammo fuori. Abbiamo cominciato a considerare certi aspetti dell’arrampicare come il corrispettivo occidentale di pratiche orientali: i precisi e ripetitivi movimenti dell’assicuratore nel dare corda, l’avvicendarsi cadenzato dei piedi nella marcia nei boschi, persino il ritmico movimento dell’arrampicata su terreno facile e regolare, si avvicinavano alle pratiche di meditazione e controllo del respiro. Sia la parte laboriosa che quella visionaria dell’arrampicata sembravano ben adatte a liberare l’individuo dal concetto di sé stesso, la prima ridimensionando le sue ambizioni e la seconda mostrandogli di essere solo una parte di un universo genialmente integrato. Abbiamo visto emergere, l’uno nel volto dell’altro, la visione con la sua mescolanza di gioia e serenità, e rientrando dalle scalate ci siamo sentiti spesso come bambini nel giardino dell’Eden: indicavamo, facevamo cenni e ridevamo. Abbiamo esplorato momenti senza tempo e ci siamo stupiti quando la consapevolezza ordinaria era sospesa, mentre la facoltà visionaria era in essere. Ci è accaduto di non rammentare questi momenti di vera felicità e pace: tutto quello che restava – dopo – era la consapevolezza che c’erano stati ed erano stati belli: gli abituali dettagli della memoria erano svaniti. Successe anche a gran parte delle nostre conversazioni: ricordo solo che parlammo e comprendemmo delle cose. Credo che fu nel corso di queste conversazioni che fu piantato il primo seme del concetto dell’alpinista come visionario.
William Blake ha parlato dell’esperienza visionaria dicendo: “Se le porte della percezione fossero sempre dischiuse tutto apparirebbe all’uomo com’è: infinito”. Inciampando nelle porte dischiuse l’arrampicatore si meraviglia di ritrovarsi nella condizione privilegiata di trovarsi faccia a faccia con l’universo. Trova la risposta nella sua attività e nella chimica della sua mente e comincia ad accorgersi che sta applicando in modo speciale alcune antichissime tecniche di apertura mentale. La visione di Chouinard non è stata un caso: è il risultato di giorni di arrampicata. Chouinard era temprato dalle difficoltà tecniche, dolore, apprensione, disidratazione, sforzi, deserto sensoriale, stanchezza, in una parola dalla graduale perdita del sé. Basta solo copiare gli ingredienti, per consegnarsi ad essa. Gli ingredienti conducono alla porta. Non è necessario raggiungere il livello tecnico di Chouinard, pochi possono farlo, è sufficiente il suo livello di impegno. Non è necessario scalare El Capitan per essere visionari: io non l’ho mai fatto ma arrampicando cerco di spingermi al mio limite, di scalare cose per me problematiche. In questo modo noi tutti attraversiamo questo confine etereo – ognuno il suo – e ci inoltriamo nello stato di visione. Per quanto esso possa essere descritto precisamente, rimane sostanzialmente elusivo. Non diventerete un giorno visionari per rimanerlo per sempre. E’ una condizione nella quale si entra e si esce raggiungendola con sforzi mirati o spontaneamente, in momenti voluti dal caso. Stranamente non è il frutto di un lavoro conscio, ma arriva come il sottoprodotto di uno sforzo in un’altra direzione e su un altro piano. Vive il suo ghiribizzo momentaneo o indugia sospesa nell’aria, arrestando il tempo nel suo divenire, per un attimo momentaneamente eterna, come quando conclusa l’ultima corda doppia vi voltate e siete sopraffatti dalla meraviglia verde della foresta.
Ascent 1969
In 1914 George Mallory, later to become famous for an offhand definition of why
people climb, wrote an article entitled 'The Mountaineer as Artist', which
appeared in the Climber's Club Journal. In an attempt to justify his climber's
feeling of superiority over other sportsmen, he asserts that the climber is an
artist. He says that "a day well spent in the Alps is like some great symphony,"
and justifies the lack of any tangible production - for artists are generally
expected to produce works of art which others may see - by saying that "artists,
in this sense, are not distinguished by the power of expressing emotion, but the
power of feeling that emotional experience out of which Art is made...
mountaineers are all artistic... because they cultivate emotional experience for
its own sake." While fully justifying the elevated regard we have for climbing as
an activity, Mallory's assertion leaves no room for distinguishing the creator of
a route from an admirer of it. Mountaineering can produce tangible artistic
results which are then on public view. A route is an artistic statement on the
side of a mountain, accessible to the view and thus the admiration or criticism of
other climbers. Just as the line of a route determines its aesthetics, the manner
in which it was climbed constitutes its style. A climb has the qualities of a work
of art and its creator is responsible for its direction and style just as an
artist is. We recognize those climbers who are especially gifted at creating
forceful and aesthetic lines, and respect them for their gift.
But just as Mallory did not go far enough in ascribing artistic functions to the
act of creating outstanding new climbs, so I think he uses the word 'artist' too
broadly when he means it to include an aesthetic response as well as an aesthetic
creation. For this response, which is essentially passive and receptive rather
than aggressive and creative, I would use the word visionary. Not visionary in the
usual sense of idle and unrealizable dreaming, of building castles in the air, but
rather in seeing the objects and actions of ordinary experience with greater
intensity, penetrating them further, seeing their marvels and mysteries, their
forms, moods, and motions. Being a visionary in this sense involves nothing
supernatural or otherworldly; it amounts to bringing fresh vision to the familiar
things of the world. I use the word visionary very simply, taking its origins from
'vision', to mean seeing, always to great degrees of intensity, but never beyond
the boundaries of the real and physically present. To take a familiar example, it
would be hard to look at Van Gogh's Starry Night without seeing the visionary
quality in the way the artist sees the world. He has not painted anything that is
not in the original scene, yet others would have trouble recognizing what he has
depicted, and the difference likes in the intensity of his perception, hear of the
visionary experience. He is painting from a higher state of consciousness.
Climbers too have their 'Starry Nights'. Consider the following, from an account
by Allen Steck, of the Hummingbird Ridge climb on Mt. Logan: "I turned for a
moment and was completely lost in the silent appraisal of the beautiful sensuous
simplicity of windblown snow." The beauty of that moment, the form and motion of
the blowing snow was such a powerful impression, was so wonderfully sufficient,
that the climber was lost in it. It is said to be only a moment, yet by virtue of
total absorption he is lost in it and the winds of eternity blow though it. A
second example comes from the account of the seventh day's climbing on the eight-
day first ascent, under trying conditions, of El Capitan's Muir Wall. Yvon
Chouinard relates in the 1966 American Alpine Journal:
With the more receptive senses we now appreciated everything around us. Each
individual crystal in the granite stood out in bold relief. The varied shapes of
the clouds never ceased to attract our attention. For the first time we noticed
tiny bugs that were all over the walls, so tiny they were barely noticeable. While
belaying, I stared at one for fifteen minutes, watching him move and admiring his
brilliant red color.
How could one ever be bored with so many good things to see and feel? This unity
with our joyous surrounding, this ultra-penetrating perception gave us a feeling
of contentment that we had not had for years.
In these passages the qualities that make up the climber's visionary experience
are apparent; the overwhelming beauty of the most ordinary objects - clouds,
granite, snow - of the climber's experience, a sense of the slowing down of time
even to the point of disappearing, and a "feeling of contentment" an oceanic
feeling of the supreme sufficiency of the present. And while delicate in
substance, these feelings are strong enough to intrude forcefully in to the middle
of dangerous circumstances and remain there, temporarily superseding even
apprehension and drive for achievement.
Chouinard's words begin to give us an idea of the origin of these experiences as
well as their character. he begins by referring to "the more receptive senses."
What made their sense more receptive? It seems integrally connected wit what they
were doing, and that it was their seventh day of uninterrupted concentration.
Climbing tends to induce visionary experiences. We should explore which
characteristics of the climbing process prepare its practitioners for these
experiences.
Climbing requires intense concentration. I know of no other activity in which I
can so easily lose all the hours of an afternoon without a trace. Or a regret. I
have had storms creep up on me as if I have been asleep, yet I knew the whole time
I was in the grip of an intense concentration, focused first on a few square feet
of rock, and then on a few feet more, I have gone off across camp to boulder and
returned to find the stew burned. Sometimes in the lowlands when it is hard to
work I am jealous of how easily concentration coms in climbing. This concentration
may be intense, but it is not the same as the intensity of the visionary periods;
it is a prerequisite intensity.
But the concentration is not continuous. It is often intermittent and sporadic,
sometimes cyclic and rhythmic. After facing the successive few square feet of rock
for a while, the end of the rope is reached and it is time to belay. The belay
time is a break in the concentration, a gap, a small chance to relax. The climber
changes from an aggressive and productive stance to a passive and receptive one,
from doer to observer, and in fact from artist to visionary. The climbing day goes
on through the climb-belay-climb-belay cycle by a regular series of concentrations
and relaxations. It is of one of these relaxations that Chouinard speaks. when
limbs go to the rock and muscles contract, then the will contracts also. And and
the belay stance, tied in to a scrub oak, the muscles relax and the will also,
which has been concentrating on moves, expands and takes in the world again, and
the world is new and bright. It is freshly created, for it really had ceased to
exist. By contrast, the disadvantage of the usual low-level activity is that it
cannot shut out the world, which then never ceases being familiar and is thus
ignored. To climb with intense concentration is to shut out the world, which, when
it reappears, will be as a fresh experience, strange and wonderful in its newness.
These belay relaxations are not total; the climb is not over, pitches lie ahead,
even the crux; days more may be needed to be through. We notice that as the cycle
of intense contraction takes over, and as this cycle becomes the daily routine,
even consumes the daily routine, the relaxations on belay yield more frequent or
intense visionary experiences. It is no accident that Chouinard's experiences
occurred near the end of the climb; he had been building up to them for six days.
The summit, capping off the cycling and giving a final release from the tension of
contractions, should offer the climber some of his most intense moments, and a
look into the literature reveals this to be so. The summit is also a release from
the sensory desert of the climb; from the starkness of concentrating on
configurations of rock we go to the visual richness of the summit. But there is
still the descent to worry about, another contraction of will to be followed by
relaxation at the climb's foot. Sitting on a log changing from klittershoes into
boots, and looking over the Valley, we are suffused with oceanic feelings of
clarity, distance, union, oneness. There is carryover from one climb to the next,
from one day on the hot white walls to the next, however, punctuated by wine dark
evenings in Camp 4. Once a pathway has been tried it becomes more familiar and is
easier to follow the second time, more so on subsequent trips. The threshold has
been lowered. Practice is as useful to the climber's visionary faculty as to his
crack technique. It also applies outside of climbing. In John Harlin's words,
although he was speaking about will and not vision, the experience can be
"borrowed and projected." It will apply in the climber's life in general, in his
flat, ground and lowland hours. But it is the climbing that has taught him to be a
visionary. Lest we get too self-important about consciously preparing ourselves
for visionary activity, however, we remember that the incredible beauty of the
mountains is always at hand, always ready to nudge us into awareness.
The period of these cycles varies widely. If you sometimes cycle through lucid
periods from pitch to pitch or even take days to run a complete course, it may
also be virtually instantaneous, as, pulling up on a hold after a moment's
hesitation and doubt, you feel at once the warmth of sun through your shirt and
without pausing reach on.
Nor does the alteration of consciousness have to be large. A small change can be
profound. The gulf between looking without seeing and looking with real vision is
at times of such a low order that we may be continually shifting back and forth in
daily life. Further heightening of the visionary faculty consists of more deeply
perceiving what is already there. Vision is intense seeing. Vision is seeing what
is more deeply interfused, and following this process leads to a sense of ecology.
It is an intuitive rather than a scientific ecology; it is John Muir's kind,
starting not from generalizations for trees, rocks, air, but rather from that
tree with the goiter part way up the trunk, from the rocks as Chouinard saw them,
supremely sufficient and aloof, blazing away their perfect light, and from that
air which blew clean and hot up off the eastern desert and carries lingering
memories of snow fields on the Dana Plateau and miles of Tuolumne treetops as it
pours over the rim of the Valley on its way to the Pacific.
These visionary changes in the climber's mind have a physiological basis. The
alternation of hope and fear spoken of in climbing describes an emotional state
with a biochemical basis. These physiological mechanisms have been used for
thousands of years by prophets and mystics, and for a few centuries by climbers.
There are two complementary mechanisms operating independently: carbon dioxide
level and adrenalin breakdown products, the first keyed by exertion, the second by
apprehension. During the active part of the climb the body is working hard,
building up its CO2 level (oxygen debt) and releasing adrenalin in anticipation of
difficult or dangerous moves, so that by the time the climber moves into belay at
the end of the pitch he has established an oxygen debt and a supply of now
unneeded adrenalin. Oxygen debt manifests itself on the cellular level as lactic
acid, a cellular poison, which may possibly be the agent that has a visionary
effect on the mind. Visionary activity can be induced experimentally by
administering CO2, and this phenomenon begins to explain the place of singing and
long-winded chanting in the medieval Church as well as breath-control exercises of
Eastern religions. Adrenalin, carried to all parts of the body through the blood
stream, is an unstable compound and if unused, soon begins to break down. Some of
the visionary experience; in fact, they are naturally occurring body chemicals
which closely resemble the psychedelic drugs, and may help someday to shed light
on the action of these mind-expanding agents. So we see that the activity of the
climbing, coupled with its anxiety, produces a chemical climate in the body that
is conducive to visionary experience. There is one other long-range factor that
may begin to figure in Chouinard's example: diet. Either simple starvation or
vitamin deficiency tends to prepare the body, apparently by weakening it, for
visionary experiences. Such a vitamin deficiency will result in a decreased level
of nicotinic acid, a member of the B-vitamin complex and a known anti-psychedelic
agent, thus nourishing the visionary experience. Chouinard comments on the low
rations at several points in his account. For a further discussion of physical
pathways to the visionary state, see Aldous Huxley's two essays, 'The Doors of
Perception' and 'Heaven and Hell.'
There is an interesting relationship between the climber-visionary and his
counterpart in the neighboring subculture of psychedelic drug users. These drugs
are becoming increasingly common and many young people will come to climbing from
a visionary vantage point unique in its history. These drugs have been through a
series of erroneous names, based on false models of their action: psychotomimetic
for a supposed ability to produce a model psychosis, and hallucinogen , when the
hallucination was thought to be the central reality of the experience. Their
present names means simply 'mind manifesting,' which is at least neutral. These
drugs are providing people with a window into the visionary experience. They come
away knowing that there is a place where the objects of ordinary sensations remind
them of many spontaneous or 'peak' experiences and thus confirm or place a
previous set of observations. But this is the end. There is no going back to the
heightened reality, to the supreme sufficiency of the present moment. The window
has been shut and cannot even be found without recourse to the drug.
I am not in the least prepared to say that drug users take up climbing in order
to search for the window. It couldn't occur to them. Anyone unused to disciplined
physical activity would have trouble imagining that it produced anything but
sweat. But when the two cultures overlap, and a young climber begins to find
parallels between the visionary result of his climbing discipline and his formerly
drug-induced visionary life, he is on the threshold of control. There is now a
clear path of discipline leading to the window. It consists of the sensory desert,
intensity of concentrated effort, and rhythmical cycling of contraction and
relaxation. This path is not unique to climbing, of course, but here we are
thinking of the peculiar form that the elements of the path assume in climbing. I
call it the Holy Slow Road because, although time consuming and painful, it is an
unaided way to the visionary state; by following it the climber will find himself
better prepared to appreciate the visionary in himself, and by returning gradually
and with eyes open to ordinary waking consciousness he now knows where the window
lies, how it is unlocked, and he carries some of the experience back with him. The
Holy Slow Road assures that the climber's soul, tempered by the very experiences
that have made him a visionary, has been refined so that he can handle his
visionary activity while still remaining balanced and active (the result of too
much visionary activity without accompanying personality growth being the dropout,
an essentially unproductive stance). The climbing which has prepared him to be a
visionary has also prepared the climber to handle his visions. This is not,
however, a momentous change. It is still as close as seeing instead of mere
looking. Experiencing a permanent change in perception may take years of
discipline.
A potential pitfall is seeing the 'discipline' of the Holy Slow Road in the iron-
willed tradition of the Protestant ethic, and that will not work. The climbs will
provide all the necessary rigor of discipline without having to add to it. And as
the visionary faculty comes closer to the surface, what is needed is not an effort
of discipline but an effort of relaxation, a submission of self to the wonderful,
supportive, and sufficient world.
I first began to consider these ideas in the summer of 1965 in Yosemite with
Chris Fredricks. Sensing a similarity of experience, or else a similar approach to
experience, we sat many nights talking together at the edge of the climbers' camp
and spent some of our days testing our words in kinesthetic sunshine. Chris had
become interested in Zen Buddhism, and as he told me of this Oriental religion I
was amazed that I had never before heard of such a system that fit the facts of
outward reality as I saw them without any pushing or straining. We never, that I
remember, mentioned the visionary experience as such, yet its substance was rarely
far from our reflections. We entered into one of those find parallel states of
mind such that it is impossible now for me to say what thoughts came from which of
us. We began to consider some aspects of climbing as Western equivalents of
Eastern practices; the even movements of the belayer taking in slack, the regular
footfall of walking through the woods, even the rhythmic movements of climbing on
easy or familiar ground' all approach the function meditation and breath-control.
Both the laborious and visionary parts of climbing seemed well suited to
liberating the individual from his concept of self, the one by intimidating his
aspirations, the other by showing the self to be only a small part of a subtle
integrated universe. We watched the visionary surface in each other with its
mixture of joy and serenity, and walking down from climbs we often felt like
little children in the Garden of Eden, pointing, nodding, and laughing. We
explored timeless moments and wondered at the suspension of ordinary consciousness
while the visionary faculty was operating. It occurred to us that there was no
remembering such times of being truly happy and at peace; all that could be said
of them later was that they had been and that they had been truly fine; the usual
details of memory were gone. This applies also to most of our conversations. I
remember only that we talked and that we came to understand things. I believe it
was in these conversations that the first seeds of the climber as visionary were
planted.
William Blake has spoken of the visionary experience by saying, "If the doors of
perception were cleansed everything would appear to man as it is, infinite."
Stumbling upon the cleansed doors, the climber wonders how he came into that
privileged visionary position vis-a-vis the universe. He finds the answer in the
activity of his climbing and the chemistry of his mind and he begins to see that
he is practicing a special application of some very ancient mind-opening
techniques. Chouinard's vision was no accident. It was the result of days of
climbing. He was tempered by technical difficulties, pain, apprehension,
dehydration, striving, the sensory desert, weariness, the gradual loss of self. It
is a system. You need only copy the ingredients to commit yourself to them. They
lead to the door. It is not necessary to attain to Chouinard's technical level -
few can do - only to his degree of commitment. It is not essential that one climb
El Capitan to be a visionary; I never have, yet I try in my climbing to push my
personal limit, to do climbs that are questionable for me. Thus we all walk the
feather edge - each man his own unique edge - and go on to the visionary. For all
the precision with which the visionary state can be placed and described, it is
still elusive. You do not one day become a visionary and ever after remain one. It
is a state that one flows in and out of, gaining it through directed effort or
spontaneously in gratuitous moment. Oddly, it is not consciously worked for, but
come as the almost accidental product of effort in another direction and on a
different plane. It is at its own whim momentary or lingering suspended in the
air, suspending time in its turn, forever momentarily eternal, as, stepping out of
the last rappel you turn and behold the rich green wonder of the forest.
Ascent 1969
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Fonti:
http://www.fuorivia.com/forum/viewtopic.php?f=17&t=11092
http://www.fuorivia.com/forum/viewtopic.php?f=17&t=23607&start=30
Tradotto da me e corretto da Marina direi...
Scritto da: Marco Lanzavecchia | 06/10/2011 a 10:36 m.
certo, babbalone ;) l'ho pure scritto nell'intro - con il nick anziché con il cognome, a volte a qualcuno non fa piacere essere citato per esteso
Scritto da: climbing_pills | 06/10/2011 a 10:47 m.
GRAZIE!!!
Scritto da: bummi | 06/10/2011 a 03:41 p.
In verità io non ho fatto nulla, solo messo in ordine cose prese da Fuorivia. Il grazie va a chi ha postato la scansione e soprattutto a chi si è preso la briga di tradurre (e che traduzione)!
Scritto da: climbing_pills | 06/10/2011 a 03:56 p.
Che visionari i traduttori! Grazie!
Scritto da: lordmasa | 06/30/2011 a 12:22 p.