(foto originale a colori di Andrea Varetto)
In quegli anni eravamo davanti a un ambiente alpinistico che era quanto di più retrivo e ottusamente conservatore si possa pensare. La scuola Gervasutti di Torino ne era un esempio emblematico, in cui si rasentava l’idiozia nel senso mentale anche su problemi tecnici specifici. Vigevano regole assolute: l’alpinismo è solo questo, il resto è merda; le scarpe da usare sono solo queste, il resto è merda; l’abbigliamento è questo e basta, ecc.
[Massimo Demichela, da “Nuovi Mattini: il singolare sessantotto degli alpinisti", a cura di Enrico Camanni]
In quel periodo il mondo alpinistico torinese era diviso in due fazioni: una piccola piccola, in cui c'ero anch'io; un'altra infinitamente più grande, al 90% fatta di gente antipatica e presuntuosa. Forse noi non eravamo migiori, anzi sicuramente eravamo dei rompiballe, ma almeno non ci prendevamo sul serio. Gli altri erano terribilmente seri e sicuri di avere ragione. [...] (Noi) non avevamo la stessa esperienza alpinistica, ma sicuramente arrampicavamo meglio di loro. Eravamo un po' carognette e ci divertivamo a dimostrare la nostra superiorità, li trattavamo con sufficienza.
[Roberto Bonelli, da “Nuovi Mattini: il singolare sessantotto degli alpinisti", a cura di Enrico Camanni]
Che ambientino!
Ecco qui di seguito altre due testimonianze di esperienze con la Gerva in quegli anni, datate 1978 e 1984.
Due racconti scritti a posteriori, ricordando in modo scanzonato e divertente quelle che furono invece esperienze vissute con una buona dose di ansia e preoccupazione.
C'è da dire che l'assolutismo ottuso di cui è inzuppato il primo racconto ehm ehm... ecco... inzomma... anche oggi che siamo nel 2011 fra le braccia di Santa Madre CAI non è che si sia proprio estinto...
Primi passi. La scuola CAI.
1978.
Mio padre si accorge che la mia passione per la montagna non trova più spazio sufficiente nelle lunghe e anche impegnative camminate. Ogni sasso è un occasione, un tentativo per tentare di salirlo.
Mi iscrive alla scuola di Alpinismo Gervasutti del CAI di Torino. Meglio: litiga e discute per iscrivermi.
Ho sedici anni e la prima risposta che riceve “L’alpinismo non è roba da ragazzini.”
Non ho mai saputo il motivo per cui alla fine accettarono la mia iscrizione, in tutta onestà credo che pesarono molto le amicizie di mio padre.
L’ambiente alla “Gerva” era ancora “militare” ed estremamente formale.
Anni dopo leggerò che uno dei meriti dei direttori di quel periodo fu di “svecchiare, ringiovanire e rendere meno formale” l’ambiente della scuola.
Sarà cosi. Probabilmente prima erano ancora in voga le punizioni corporali e le fustigazioni con canapone del 14.
All’atto dell’iscrizione ricevo una “lista della spesa” di quello che devo avere.
1) Scarponi (be’ certo non mi presento a piedi nudi)
2) Imbracatura
3) Due moschettoni a ghiera
4) Un cordino
5) Casco.
Prima lezione teorica. Nodi & affini.
Passo la settimana e mezza successiva a provare e riprovare a casa barcaiolo, mezzo barcaiolo, prusik, bulino, otto inseguito e una svariata serie di nodi autobloccanti e no con i moschettoni
Meno male che ho un bel libro che spiega tutto. Alla lezione teorica ero in 32° fila e non ho visto una mazza.
So tutto a memoria. Ora sono un alpinista.
Prima lezione pratica. Courbassere.
Allievi in scarponi. Istruttori in scarpette. Certo. “Figlioli, prima imparate a usare gli scarponi” Un allievo fa notare che è difficile imparare ad arrampicare in scarponi se quello che devi guardare, per carpirne i segreti, usa le scarpette. Non lo vedrò più. O ha rinunciato o lo hanno preso a sassate ed è ancora lì, svenuto fra i massi.
Mi infilo l’imbrago e mi lego. Nodo a otto. Non so perché ma mi sembra più affidabile del bulino che ho l’impressione si possa sfilare facilmente. Vengo coperto di contumelie ed insulti. “Si usa il bulino, non il nodo a otto che è pericolosissimo! Iniziamo bene, non è stato attento alla lezione teorica!”
Lezione di corda doppia, rigorosamente a spalla. Per l’autosicura faccio il Machard, non so perché ma mi sembra più gestibile del prusik.
Altra serie di contumelie ed insulti. “Si usa il prusik! Dove ha imparato quel cavolo di nodo che è pericolosissssssimo?”
Veramente l’ho letto sul libro dei nodi delle guide di Cortina….” Male! Dov’era alla lezione teorica? Da noi si usa il prusik!”
Non sapendo nulla sul federalismo regionale dei nodi, mi adeguo.
Vagli a spiegare che in 32° fila con davanti stangoni da un metro e ottanta ed un brusio da sciame di vespa a malapena ho intuito che la lezione era sui nodi.
Scopro anche che ci si dà del Lei. O del voi. Non l’ho mai capito.
I tre mesi di corso scorrono fra banali salite dove nessuno mi spiega una cippa di niente e racconti di istruttori di mirabolanti imprese alpinistiche al limite della vita, fra cui la normale del Monviso e la normale del Ciarforon.
Scopro anche un’altra regola non scritta.
Gli istruttori forti (perché ce ne sono molti, Manera su tutti, direttore del corso), con gli allievi forti (ma se sanno già arrampicare, che ci sono venuti a fare?).
Gli istruttori pippa, con gli allievi pippa. Solo che cosa impari da un istruttore che non riesce a passare il terzo tiro del Cinquetti in Sbarua?
Ci sono i famigerati “libretti” dove l’istruttore deve segnare la salita fatta e la valutazione dell’allievo.
Che sono anche “misteriosi”. Non puoi sapere che cavolo ci scrivono.
Nell’ultima uscita dopo una banale salita in montagna, scendo un canale di deiezione sciando sul pietrisco prima e saltando sui massi grossi dopo. Il mio istruttore (non svelerò il nome neanche sotto tortura, oggi è un accademico…) indietro di 200 metri ogni tre per due batte una sonora culata per terra. Al rifugio lascia il famigerato libretto aperto e sbircio: “ discreta conoscenza del terreno di montagna”. Discreta? Mi permetto, ingenuamente, di far osservare il fatto. Apriti cielo. Succede il finimondo e rientrati a Torino faranno rilevare il fatto a mio padre. Lì capisco che del concetto “scuola” hanno preso la parte deleteria.
Alla fine del primo corso non sono ammesso al secondo. Insomma bocciato.
La passione è intatta. Solo quella perché il resto è un disastro.
Nei giorni successivi, mentendo spudoratamente a mio padre (vado a fare un giretto in Val Pellice…) farò la mia prima “protosolitaria”. La normale del Granero.
La maturazione verrà qualche tempo dopo.
L’incontro con Giancarlo Grassi ma soprattutto, dal punto di vista umano, con Gianni Comino.
I gradi, la libera, le cavalcate sulla pietra (ma anche le sbronze e il primo spinello) in valle dell’Orco, subito dopo.
Payns [da planetmountain]
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Custa si l’ha fait el Ciangabam
Ugo Manera sul “Ciangabam” [da Alpinesketches]
1984, settembre.
Da qualche mese ho finito il militare o meglio la lunga convalescenza che mi ha accompagnato al mio ritorno dal Libano: Beirut ovest. Giovane studente di medicina, pensavo che il servizio militare servisse a distrarmi un poco dalla biochimica, bestia nera e sbarramento per il proseguimento degli studi. In realtà avevo presentato domanda per il servizio civile nell’Ospedale psichiatrico di Collegno (non ridete), dove da alcuni anni prestavo attività da volontario, ma la domanda venne respinta, forse per qualche trascorso diciamo… un po’ inquieto nella politica militante.
Morale: non solo mi ritrovo bersagliere, ma pure spedito obbligatoriamente, con tutta la mia compagnia, a Beirut ovest. Della storia di quei mesi ho già scritto, e forse un giorno vi farò partecipi; resta il fatto che dopo più di tre mesi torno in Italia con una epatite virale di tipo A, il fegato spappolato e il morale a terra. In più passo il resto della naia all’ospedale militare, reparto infettivi, dove a parte il sottoscritto gli altri ospiti erano tutti tossici… comunque simpatici.
Decido quindi di iscrivermi alla mitica scuola di Alpinismo Gervasutti, così mi rimetto in forma, trovo nuovi amici e riprendo ad andare in montagna aggiornato, sperando di dimenticare studi e militare.
Dovete sapere che a quei tempi la scuola aveva due anime ben distinte, quella dei giovani istruttori ed aiuto istruttori e quella dei “saggi” tutti ovviamente istruttori e accademici. Queste due anime convivevano con spirito tutto sommato competitivo ma simpatico; per noi allievi era più naturale scorrazzare con i giovani, tra l’altro molto bravi, che non con i “saggi”, anche perché avevamo un timore reverenziale nei confronti del milieu dell’accademico occidentale. Timore che diventava panico quando si parlava del mitico “Pan e pera” Manera. Ai tempi l’appuntamento per le uscite era alle 7 in piazza Castello, si consegnavano i tesserini e gli allievi venivano assegnati all’istruttore.
“Con... vanno...” questa era la frase di assegnazione, quando arrivava il momento di “Con Manera vanno...” calava un silenzio tombale, alla lettura degli assegnati si sentiva un “wiuuusssshh” di sollievo nella piazza, mentre due poveri tapini impallidivano prima di venire apostrofati dal “pan e pera” con la storica frase: “t’las pialu l’ martel?” Mal gliene incoglieva se la risposta era un no.
Una domenica, un amico finito nell’uscita di Finale Ligure come suo allievo si dileguò dalla piazza, continuavano a chiamarlo, ma lui lasciò il tesserino e non si fece più vedere.
Quell’anno fu il primo in cui divenne obbligatoria nella scuola l’uscita sulle cascate di ghiaccio, io mi attrezzai con una Super Courmayeur nuova, pensando di affidarmi come secondo attrezzo alla classica Camp da 65 cm. Ovviamente non si parlava di terzo attrezzo, non potevo permettermelo, a quei tempi la progressione era su due attrezzi con cordino all’imbracatura più un terzo attrezzo per piantare/levare i chiodi.
La domenica mattina ci trovammo all’appuntamento e...“Con Manera vanno. Cardonatti e...”
Azzzz questa volta l’ho beccato; il mio compagno di sventura mi guardò perplesso:
Che si fa?
Si va!
Destinazione l’anfiteatro di Novalesa.
Salimmo sulla sua auto bianca, se non ricordo male una Uno, e fino ad Almese non scambiammo una parola! Noi timorosi, lui assorto per i fatti suoi.
Poi improvvisamente ci apostrofò:
“Quante cascate avete fatto?”
?????????????????????????
Aspettavo il mio socio sperando potesse vantare anche solo uno sputo di ghiaccio.
Silenzio.
“Nessuna, io.”
“Neanche io.”
??!!!!????!!!!!!§ç°*
A quel punto non era solo più timore, era panico e terrore puro.
Una persona normale, vista l’esperienza vantata dai suoi allievi, avrebbe iniziato con una facilissima cascata didattica. Ovviamente, non fu così... scelse un TD+ su candelotti, ma prima...
Arrivati a Novalesa, facciamo la conta del materiale:
“Che attrezzi avete?”
Io tiro fuori orgoglioso la mia Grivel e l’alpenstock.
Stessa attrezzatura il mio socio.
???ç°*§§!!!!!??
Dopo aver ruminato qualche improperio, si china nel bagagliaio dell’auto e ne estrae una piccola Stubai color verde pisello e me la porge con gesto solenne:
“Custa si ha l’ha fait el Ciangabam” [Changabang, famosissima e mitica cime himalayana. n.d.r.]
Le gambe cominciano a tremarmi, afferro la reliquia di quella che è stata una spedizione mitica del Cai di Torino, non mi accorgo neanche che non ha né dragonne né cordino, so solo che la responsabilità è enorme, mi schiaccia come un macigno, ho in mano l’Excalibur delle piccozze, ma non sono io l’eletto.
La storia si ripete solenne con il mio socio, altra Stubai verde altro:
“Anche custa l’ha fait el Ciangabam”
Stessa reazione del socio, che però ci prova e mi dice:
“Se la scambi con la tua Grivel, così abbiamo le piccozze dello stesso tipo...
Bravo te! Dividiamoci il peso della storia!
Ci avviciniamo alla cascata, candele verticali ben formate, ora di partire mi accorgo che non ho nulla per tenere la Stubai, riesco a malapena a fare una sorta di anello con un cordino a guisa di dragonne, neanche della Grivel ho il cordino che la collega a vita, non lo so ancora, ma sono un antesignano della scalata senza cordini.
Mentre mille pensieri mi assalgono il buon Ugo sale fischiettando, fermandosi sui due attrezzi, tirando i cordini in tensione e chiodando con il terzo attrezzo comodamente appeso alle due picche, i chiodi sono cavatappi, snarg, e altre amenità del tempo. Arriva in sosta e, come d’abitudine inizia a canticchiare e poi tragico risuona un:
“VENITE!”
Ora, io sono sempre un tardo nei preparativi, nel realizzare ed analizzare la situazione, il socio infame inizia a tranfiare su per i candelotti verticali e... bastardo, mi lascia i chiodi da levare.
Ora, lo dico per i giovani, avete presente cosa vuol dire levare dei chiodi a cavatappi che nel frattempo complice il gelo si erano cementati nel ghiaccio?
Non solo, ma alla partenza si imponeva una scelta: con che mano avrei impugnato Excalibur?
Se con la destra l’avrei avuta nel braccio più forte, ma dovevo poi schiodare con la sinistra, ma schiodando con la destra avrei dovuto impugnarla con la sinistra, braccio debole.
Vista l’alternanza dei chiodi da togliere scelgo di impugnarla con la destra, ma il bastardo socio mi frega, urlo e bestemmio dietro, ma lui piagnucola e mena fendenti a destra ed a manca sul ghiaccio.
Parto, credevo peggio, mi sforzo di essere dignitoso, non abbiamo avuto grandi delucidazioni sulla progressione, andiamo ad intuito. Arrivo al primo chiodo... cerco di piantare la Stubai e di tenerla, più che tenermi, il cordino mi lacera il polso, preferisco perdere la Grivel nuova di pacca, sapendo che non potrò più permettermene un’altra, piuttosto che far cadere la mitica del “Ciangabam”. Non voglio appendermi alla corda, se no mi boccia, allora con fatica incredibile, dopo una lotta strenua tolgo il primo chiodo. Il braccio è ormai in cancrena, ma ho anche esaurito le poche forze che avevo, così la progressione fino al chiodo successivo è un’agonia. Il bastardo davanti non solo non toglie i chiodi, ma mi bombarda continuamente, arrivo a rimpiangere Beirut ovest.
Man mano che salgo e che schiodo i tempi aumentano, non sento più le braccia, ho la nausea.
Il penultimo chiodo non vuol saperne di venire via, ricordo in un raro momento di lucidità di aver addirittura messo tra i denti la Excalibur, per usare la mano destra,così poi mi è rimasta attaccata alle labbra, ma almeno non la perdevo. Lotto ancora con il chiodo fino a che giunge dalla sosta un urlo:
“BOIA FAUSS PER GAVE’ EN CIO’... MEZZ’ORA (in italiano)... STUMA SI TUT EL DI’?!
Mi crolla il mondo, è finita, mi boccia non passerò al corso successivo, il suo giudizio è legge, scriverà che non sono portato per l’alpinismo (lo farà davvero e forse aveva anche ragione), mi lascio andare sulle corde, sfinito, metto Excalibur nel maglione, prendo la Grivel, infilo la becca nell’occhiello del chiodo e giro a due mani con forza, la becca si piega leggermente, ma riesco a togliere il chiodo.
Il bastardo colto da pietà tardiva toglie l’ultimo chiodo, il tiro mi sembra eterno pianto le picche sul terrazzino di sosta, il fegato mi scoppia, non riesco ad alzarmi mi trascino sulle gambe in ginocchio arrivo in sosta come un cagnolino e... vomito direttamente sugli scarponi del mitico “Pan e Pera”,
per fortuna con scafo di plastica. Mi guarda dall’alto disgustato:
“SUMA BIN CIAPA’!!”
Ma io sono felice: Excalibur è salva!... Anche se per un momento ho temuto che la impugnasse e mi finisse impietosamente passandomi da parte a parte, usando poi il mio misero corpo per pulirsi gli scarponi dal vomito.
P.S. Il viaggio di ritorno si preannunciava greve, anche se poi dopo il mio vomito e la mia breve spiegazione sullo stato di salute, si placò e si convinse che forse qualcosa di facile magari... Così riuscimmo pure a divertirci sui primi salti del cascatone di Novalesa (credo), recuperando anche i cordini per legarci a vita le mitiche piccozze del Changabam.
Ma poi, non so come mi venne una domanda durante il viaggio, presi il coraggio a due mani e gli chiesi:
“Com’era Gianpiero Motti?” (era scomparso da circa un anno)
Quel che ne seguì rimarrà uno dei più bei ricordi della mia storia con la montagna e l’alpinismo:
il ritratto commosso che Ugo fece di Gianpiero a noi allievi sconosciuti ed impreparati. Avrei voluto che quel viaggio durasse ore.
P.P.S.: dopo l’esperimento del 1984, l’uscita obbligatoria sulle cascate di ghiaccio fu abolita e diventò facoltativa.
P.P.P.S. tornai a scalare una cascata di ghiaccio nel 2000 e mi divertii molto... si sa la maturità.
L'Alchimista (da http://www.lafiocavenmola.it/modules/news/article.php?storyid=1988)
Accidenti, mai avrei pensato che un raccontino sulle mie esperienze giovanili sarebbe finito su climbing pills!
Onorato! ;-)
Scritto da: Payns | 06/14/2011 a 09:30 m.
:)
In parecchi scritti dei protagonisti del nuovo mattino si legge che all'epoca la scuola CAI era una specie di reparto dell'esercito... e così ho cercato qua e là altre testimonianze.
E devo dire che le due che ho pescato sono emblematiche, oltre che divertenti e piacevoli da leggere.
Scritto da: climbing_pills | 06/14/2011 a 09:56 m.