Qui si è parlato del Peak District.
E qui, in questo post, ecco qualcosa di più su questo posto così particolare... con l'aiuto di riprese veramente ben fatte ed originali, e con un narratore d'eccezione.
Durante gli anni '80 ha dato un fondamentale contributo nell'alzare il livello di difficoltà tecnica e psicologica (suo il primo grado E8, suo il primo grado E9), ma soprattutto ha impresso un marchio indelebile dal punto di vista dello stile.
Equilibrio, scioltezza, e ancor più fantasia, dinamismo, velocità: quando lo vediamo arrampicare in uno dei vari video in giro per la rete - e nel suo famosissimo "Stone Monkey" - è impossibile non riconoscere una peculiarità nel modo in cui si muove.
Mi fermo qua perché Johnny merita un post dedicato, che arriverà prestissimo, anzi di più.
A proposito di gradi di difficoltà: E8, E9, che è?
Come ben sappiamo gli inglesi sono speciali per dover fare sempre tutto diversamente dagli europei... quando di tratta di unità di misura, poi, si sbizzarriscono letteralmente!
Nel caso dell'arrampicata, però, il fatto che abbiano adottato una scala di misurazione propria ha dei motivi sensati, in primis perché il loro approccio all'arrampicare è un po' diverso da quello europeo.
In U.K., a differenza che nella maggior parte d'Europa, il nodo fondamentale della questione è sempre stato il come piuttosto che il cosa.
Sulle Alpi l'obbiettivo è quasi sempre stato vissuto come prioritario rispetto allo stile di salita; c'è stata una fase (anni '40/'60) in cui il chiodo è diventato lo strumento principe di progressione e salita, una breve parentesi di ribellione (anni '70) ed un successivo cambio di percorso che ha portato all'affermarsi dell'arrampicata sportiva ed all'uso sistematico del fix.
In U.K. invece è stato sempre propugnato con forza lo stile di arrampicata clean, con protezioni naturali: dapprima fettucce e sassi incastrati, poi nut friend e derivati. La basse fasce di gritstone (un particolare tipo di arenaria), che alternano lisce placche a fessurazioni molto evidenti, hanno costituito un buon terreno per l'affermarsi di questo stile, ma è soprattutto la mentalità britannica che ha generato un'etica di salita estremamente chiara, pulita e coerente.
Questo ha significato che - con l'evolversi delle difficoltà e l'esplorazione di linee di salita sempre più ardite - molto spesso il fattore di rischio è una componente fondamentale dalla salita.
Ecco nascere la necessità di una scala di valutazione che desse una chiara indicazione sia della difficoltà tecnica pura che del fattore di rischio.
Questa distinzione può ora sembrarci scontata, ma non è così se pensiamo ai decenni di confusione che abbiamo da questo punto attraversato in Europa: sulle Alpi - dove spesso la progressione avveniva anche attraverso artifici - non c'era una netta percezione di cosa fosse la difficoltà tecnica pura dei passaggi, e di conseguenza lo stato di attrezzatura di una linea non poteva non influire sulla valutazione delle difficoltà, portando a mescolare il fattore di rischio con quello tecnico. Da questo punto di vista gli inglesi sono sempre stati avanti.
La scala inglese, quindi, affianca sempre due differenti indicazioni:
- un fattore tecnico, espresso in cifre arabe e lettere minuscole da a a c (come nella scala francese, ma con una diversa parametrizzazione);
- un fattore psicologico, espresso da sigle in lettere maiuscole e nella fascia più alta dalla lettera maiuscola E seguita da una cifra araba:
Moderate (M), Very Difficult (VD), Hard Very Difficult HVD), Mild Severe (MS), Severe (S), Hard Severe (HS), Mild Very Severe (MVS), Very Severe (VS), Hard Very Severe (HVS) and Extremely Severe (E).
Il grado E è poi suddiviso in più passi, da E1 a... ad oggi E11 (ma la scala è in teoria aperta).
La complicazione di questa ulteriore suddivisione associata alla lettera E è dovuta a fattori storici: quando nacque questo sistema non c'erano ancora arrampicate così difficilli da richiedere l'estensione del livello E.
E' importante notare che in questa scala difficoltà psicologica e tecnica non sono del tutto scollegate, ma salgono più o meno parallele. Il funzionamento quindi è il seguente: ad ogni grado di difficoltà psicologica può appartenere un range di gradi tecnici a seconda della proteggibilità.
Ad es. un grado tecnico 6a può essere classificato E5 se le protezioni sono molto precarie e/o distanziate (alto rischio, bold) oppure E2 se sono sicure (safe).
Detta in altro modo un grado ad es. E5 può essere associato ad una scalata tecnicamente non eccessivamente difficile ma mal protetta oppure ad un'arrampicata tecnicamente esigente ma con bassi rischi in caso di volo.
Ecco a voi la tabella riassuntiva presa da UKClimbing.
In realtà ci sono due tabelle, la prima dedicata alle vie (relativamente) ben protette e la seconda a quelle più strizzaculo (bold)!
In definitiva la scala di valutazione inglese prima separa difficoltà tecnica e psicologica e poi le ricompatta: questo è chiaro se pensiamo che a seconda della proteggibilità uno stesso grado tecnico (es. 6a) può corrispondere ad un range di gradi in scala francese (es. da 6b a 6c, vedi seconda tabella).
La valutazione british è quindi una vera difficoltà complessiva, con la separazione in due differenti indicatori ad informare se l'ago della bilancia pende verso la difficoltà tecnica o quella mentale.
E' in sistema un po' complicato, ma se ci pensate bene molto molto efficace nel descrivere in modo compatto una situazione dettagliata e ricca di sfumature.
E traduce molto bene l'anima dell'arrampicatore british: la parte mentale non può mai essere disgiunta da quella fisico/tecnica ma è sempre ben chiaro come queste due componenti, pur inscindibili, mantengano una loro collocazione ben definita.
Per capire un po' meglio l'atteggiamento british nei confronti dell'arrampicata ecco un paio di contributi storici: il primo è la didascalia della copertina del numero 28 (Luglio 1973) di Mountain, mentre il secondo è l'editoriale del numero 94 della stessa rivista (Dic-Gen 1983/84).
Copertina di Mountain, luglio 1973
John Syrett nella prima ascensione di Encore (XS) ad Almscliff. La via fu originariamente salita usando un chiodo per protezione sul passaggio chiave, e fu pertanto esclusa dalla guida. Il passaggio è ora adeguatamente protetto da stoppers e pertanto può essere salito in maniera "legittima"!
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Hard climbs, soft ethics (editoriale della rivista Mountain n°94, Dic-Gen 1984/84)
I was sat in a pub the other night, trying to explain to a non-climbing friend, (I do have one or two), the ethical repercussions of pre-placed bolt protection on climbing in Britain. Before I could begin to explain about bolts, though, I tried to explain what climbing was all about; its codes, methods and techniques, and why we do it. When you sit back and take an objective view of the 'sport' like this, you realise what a totally pointless and illogical pastime rock climbing is.
Subjectively, the picture is different. We all climb for slightly different reasons, but share the same feelings of physical, emotional, and egotistical gratification. Apart from these, one of the essential aspects of climbing which attracted me was the apparent anarchy of the whole scene. No written rules, no competitons, uniforms, medals or badges. No fixed way of doing things, no one else's will forced upon you, and vice versa.
Maybe this is what makes bolts so abhorrent to most climbers in this country; there on the rocks is a very obvious and permanent expression of what someone else thinks is the way to do something. An arrogant statement at that, the same arrogance that moves people to spray graffiti on gritstone crags, or tube station walls for that matter. Maybe these personal views are all a bit too philosophical, so I'll confine myself to the arguments that the pro-bolting lobby most regularly bend my ear with in the pub.
Bolts are accepted and commonplace on the Continent and in the States. Well bully for them. On a slightly chauvinist note, Britain has always been a forcing ground for purist ethics, which we have exported to be developed elsewhere. A French climber, say, would be incredulous at such a furore about such silly things as bolts: there again he's be just as incredulous at a climber lowering off a climb because he couldn't do the move without resting on a runner. Besides, compared to continental and American cliffs, our crags are a very small and fragile climbing environment. Stoney Middleton wouldn't make a road cutting in the Luberon, and one glance at Monument Valley puts Froggatt into perspective. I remember climbing at Ilkley with New Englander Roger Martin, when Dennis Gray appeared at the rim of the quarry; 'I bet you've nothing like this in the States, eh Roger?' he crowed. 'Hell no, Dennis,' Roger countered 'nothing quite this small.'
Another common point: climbing standards must continue to rise, and bolts enable harder routes to be led on rock unprotectable by conventional means. This is arrant nonsense. Bolts only enable climbers to apply existing standards of ability to a given piece of rock. Overall standards can only rise if ethical constraints are made tighter. No doubt as training regimes become more rigorous, several individuals would become technically capable of doing a move, but the only advance would come from the climber who has 'got it together' enough to make a bold lead; eg. Jerry Moffatt on Masters Wall. Otherwise why not top-rope the lines, for what is bolting but glorified top-roping? No one in their right mind would place a bolt for protection in such a way that they would hit the ground ifthey fell off! At least with proper top-roping, the rock is not harmed, and the prospective route can await a true free ascent. It is selfish arrogance to place bolts on a route because you think that no one will ever be better than you and lead it without. I can see the logistical problems of rigging a top-rope at Tuolumne, but not at Water-Cum-Jolly.
What about existing bolts on established and respectable hard routes? A purist view would be to chop them all, but climbing has a great wealth of tradition, and these bolts, often the remains of an old aid route, serve as a reminder of a more naive era. Let them lie, like the old classic Extremes that no one has the heart to downgrade to Hard V.S..
Bolts are only placed once, whereas pegs damage the rock with repeated removal. Two things here: firstly, climbing has always been about ascents using natural weaknesses, be it on Millstone or Cerro Torre. Climbs consist of a series of hand and footholds, the positioning of which we have no control over. Thus even the placement of pegs can leave some element of uncertainty as to the consequences of a fall, but as stated earlier, bolts don't. Obviously some routes wouldn't exist if it weren't for repeated pegging, viz the harder Millstone climbs, but that's history. An alarming trend is the removal of in situ protection pegs from existing hard free climbs by so-called aid climbers. Aid climbing is a quaint anachronism in this country, but cleptomania obviously isn't.
A classic defensive retort from the bolt-men is that it's only V. Differs like me that are doing the shouting, and because we don't lead or put up E6's we have no right to criticise our betters. Well, there has been no intuitive leap in climbing standards overthe last seven or eight years, just a steady increase in physical difficulty.
The actual nature of climbing hasn't changed, it's just that the holds are smaller, further apart, and on steeper rock. So what's the difference between E2 and E6 but one of degree? Of course constructive anarchy is essential to the evolution of rock climbing and mountaineering. All advances in climbing have resulted from successive generations dismissing existing taboos as to what was possible. The placing of bolts can only be seen as a retrograde step, limiting the imagination of aspiring leaders, and fostering a 'fast food' mentality, reducing our precious little crags to climbing walls. British climbers now travel all over the world and are well educated in the ethics and styles of international climbing. Climbing in this country is at a watershed, and climbers have got to decide what sort of crag environment they wish to come home to. Ultimately it comes down to the attitude of the individual, which sadly in the case ofthe 'superbrats' can be summed up by Rhett Butler's parting line in Gone With the Wind: 'Frankly, I don't give a damn.'
Bernard Newman
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