Warning: in questo post c'è una sostanziosa parte dei contenuti che ho tradotto io dall'albionico... posso solo dire: perdonate imprecisioni e strafalcioni.
Premessa: i gradi di cui parla sono quelli inglesi; in questo post trovate spiegazioni in merito.
In Dawes c'è dinamismo e divertimento. Arrampica per divertirsi e sembra rimbalzare sulla roccia come una palla di gomma piena di energia, con una serie di movimenti dinamici, quasi saltando verso le prese.
[Chris Bonington]
In uno sport che non si prende mai troppo sul serio, Johnny è stato bravissimo nell'eccellere senza perdere mai una sana dose di irriverenza. A dispetto delle sue capacità straordinarie, del suo stile ginnico e della sua abilità nello scoprire e percorrere nuove scalate sempre più audaci, è rimasto uno dei veri spiriti liberi dell'arrampicata. Senza mai piegarsi alle convenzioni ha mantenuto la passione per l'inusuale, lo spettacolo e a volte il pericolo e (per molti dei suoi contemporanei) l'insensato. In uno sport in cui "controllo", studio del movimento e tecnica raffinata sono doti apprezzate, Johnny sorprende tutti quanti con salti, balzi, scatti ed una fluidità che gli permettono di realizzare alcune delle più difficili e meno ripetute arrampicate in UK.
Johnny è uno dei veri pensatori laterali dell'arrampicata. Stacco salutare con le pallosità stile quanto-ci-sentiamo-seri, questo personaggio così talentuoso e spettacolare tuttora arrampica con gusto ed è uno dei veri elementi trainanti in UK.
[dal sito web www.escalade.com.au]
E'... la concezione romana che gli dei non siano creature là fuori nello spazio, ma che entrino dentro le persone e le rendano dei - dei dell'amore, dei della guerra. C'è di sicuro un dio dell'arrampicata che ti entra dentro in questo senso. Non sai perché stai scalando così bene - non è una cosa fisica, potresti aver scalato da cani per tre settimane e tutto ad un tratto ti ritrovi a scalare in modo fantastico. Non è una cosa mentale, è anima, viaggia nel profondo. Questo è il motivo per cui la scalata a vista è così tanto più esigente ed importante che ogni altro stile. Se scalando vuoi creare un'opera d'arte, devi sanguinare per farlo.
[da un articolo del 1987 su Dawes intitolato “Playpower and The Cosmic Rascal”; rivista Climber, autore Jim Perrin]
La maggior parte degli arrampicatori si concentra sull'aumento di potenza e forza nelle braccia, cercando di abbassare il proprio peso. Ma Johnny Dawes arrampica ad un livello completamente differente. Lo strumento di scalata più importante per Johnny non è un bicipite gonfio né una strizzata come quella di una morsa, ma il suo cervello.
[Alex Wellings, Stratford Journal]
Non credete a tutto ciò? Allora guardate qualche filmato!
Questo è il trailer di "Stone Monkey", che Johnny girò nel 1986: una pietra miliare per i film di arrampicata.
E questo è un breve spezzone del film in cui Johnny ripete Braille Trail, E7 6c da lui aperto nel 1983, ("Sentiero per non vedenti", per tradurre solo il significato del gioco di parole che sta dietro a questo nome); a 0:18 uno di quei movimenti imprevedibili e fantasiosi, al limite estremo dell'equilibrio, per cui Johnny è diventato famoso.
Nel video, così come in altre sequenze di "Stone Monkey", Johnny scala con la corda dall'alto; questo perché su vie dall'impegno mentale così elevato è difficile pensare di potere eseguire una ripetizione "a comando": il fatto di esserne usciti indenni una volta spesso basta ed avanza!
Nel 1986 Johnny sale Gaia (E8 6c), il primo grado E8 in assoluto: è una via su una prua davvero estetica che rimane tutt'oggi mitica e conta davvero poche ripetizioni (si può proteggere in un solo punto, a meno di metà via). Johnny la salì dopo una prima ispezione dall'alto in cui però non provò il passaggio chiave (la traversata fino allo spigolo, ritenuta semplice durante la ricognizione) che affrontò quindi a vista. In questo video sono montati alcuni diversi spezzoni di salite su Gaia: il primo ritrae Johnny (da "Stone Monkey"), il secondo un pauroso volo di Jean Mihn Trin-Thieu (apertura del famoso film "Hard Grit"), il terzo un'ispezione di Lisa Rands (che ripeterà poi la via) ed il quarto la straordinaria prestazione di Alex Honnold, che sale la via flash nel 2008.
Sempre nel 1986 Johnny compie la prima salita di Indian Face (E9 6c), il primo grado E9 della storia.
Ecco cosa dice della via Paul Williams, nella sua Cloggy Guide del 1989:
*** The Indian Face 150 feet
(a.k.a. The Headmaster's Wall)
Standard: E9; Exceptionally Severe (Excessively so). Rubbers.
Si dice che, sulla parete a destra di "A Midsummer Night's Dream", un tiro di difficoltà così spaventose da essere quasi al di là del dominio della comprensione è stato scalato senza artifici tecnologici o altre pratiche poco pulite normalmente associate a vie di questo calibro...
Le protezioni sono se va bene illusorie; l'intera placca di roccia concede non più di un singolo punto in cui la fettuccia più sottile possa essere posizionata, né una sola fessura in cui possano trovare alloggio dei cunei. Se lo scalatore dovesse fallire il passaggio chiave, o farsi prendere dalla paralisi, il disastro sarebbe imminente...
Chi dovesse riuscire, anche se di temperamento modesto, si dovrebbe rilassare e ricompensare sé stesso con una pacca sulla spalla.
In una guida più recente il compilatore si limita ad ammettere di non avere informazioni di prima mano e consiglia ad un eventuale pretendente di contattare uno dei (pochissimi) ripetiutori per avere informazioni più dettagliate.
La via, situata in Galles nell'area chiamata Clogwyn Du'r Arddu (Cloggy), santuario dell'arrampicata britannica (http://www.planetmountain.com/rock/falesie/falesia.html?skip=3&stato=Galles®ione=Snowdonia&idfalesia=115), era stata tentata da John Redhead, che rinunciò dopo un volo pauroso (più di 20m); egli mise un bolt (chiodo a pressione) che venne però rimosso da Jerry Moffat in un tentativo successivo che si risolse però in una linea diversa, che evadeva le difficoltà più significative.
Johnny compì la prima salita del muro principale dopo un'ardua lotta: la via è una scalata di placca molto audace e tecnica con protezioni minime ma relativamente facile (per un grado E9). "The Indian Face" è rimasta negli anni una sfida mortale e terribile per chi confida più sull'abilità tecnica che sulla forza e sulla resistenza fisica; il grado francese è attorno al 7c ma il tipo di scalata molto aleatorio e di aderenza, assieme alla possibilità di un volo mortale, la rendono tuttora una via molto temuta.
Lo stesso Dawes racconta della prima salita sul suo sito. Qui di seguito riporto la traduzione di qualche breve passaggio e successivamente il pezzo completo in inglese.
"A 20 metri mi sentivo bene. Un automa in un sacchetto di plastica, il mio cervello galleggiava nello spazio attorno a me. Aveva fili sottili che sventolavano nel vento ma non sembravano impigliarsi da nessuna parte; così continuai. Non appena iniziai a scalare mi sentii come se non fossi lì, ma nemmeno da un'altra parte. Semplicemente da nessuna parte; solo sulla superficie."
"A 30 metri da terra, molto al di sopra dell'ultima protezione, sono davanti al primo dei movimenti più duri. La mia ansia mi ha fatto approcciare il passaggio prima di riflettere, appigli e appoggi sono tutti nei posti sbagliati. Il mio corpo si sente pesante e impacciato. Mi butto sulla destra, un movimento che avrebbe dovuto essere statico, e sono al crux, una precaria rimontata su una sporgenza arrotondata. Se cado su questo passo la protezione alla mia sinistra sarà strappata via."
"Partii per il crux, ed il movimento mi sorprese come ad un'auto a cui viene improvvisamente inserita la marcia in un parcheggio affollato. Mi arrampicai sul bombamento afferrando una scaglia fragile fino ad un gruppo di tre cristalli sulla destra; ciascun dito, fondamentale, era separato come i martelletti su una corda di pianoforte. Cambio piede tre volte di fila per riposare le gambe, ogni volta al volo. La presa è troppo brutta da tenere se non avessi le dita separate una dall'altra. Non c'è riposo, devo andare ed arrivare in cima. Mi arrampico verso la luce del sole, ansimando per prendere fiato. Sto maltrattando una presa fragile e la sto strizzando alla morte. Impaurito per una spalmata delle mie ora-poco-aderenti scarpette uso un bordo e salgo, un volo sarebbe fatale, l'automatismo torna a possedermi, tremo ma dò tutto e afferro un grosso verticale e una canna ascendente. Le corde penzolano inutili dal mio bacino."
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Not Necessarily About The Indian Face
by Johnny Dawes
Climbing for me provided a means of self-expression. Ability, too, can mean wider social acceptance, even if only in a superficial "one of the gang" way. To a young, socially immature person, that grew as a cancer, to a stage where my climbing was taken out of my hands to an extent. The end of this lies in photographs, sponsorship, ugly tights and a dead end with a bolted door. Eventually there comes a time when you have nothing to prove. You have made friends through compassion, and that bad side to your climbing disappears. With its departure there is left a strange beast - more able mentally and physically than before, but without the naivete and wonder of youth. Its direction becomes an anguished cry to complete fate within a cycle of time: and afterwards to move on to new, more dilute and comprehensive ambitions.
For me this involved many dangerous yet necessary climbs. The culmination of all this process was the Indian Face. The mechanics and story of this climb trace my liberation from... something?
It's been good for three days!
A nice day sneaks over Crib Goch while I sleep, and Cloggy creeps slyly, with its keen climbers, towards dusk. In Pete's Eats, I find the team has gone to Gogarth. I sit and tear out my hair, with tea that dries my upper palate. Keith tells me to get my feet off the chair, and so I order a salad. The WALL envelops me for a moment, the cage then not so continuous around me. In places it is very thick and permanent, other borders open and close like a heart, and my nausea belches steam up through my skin to my head. Carlos the bandit, wearing a wide-brimmed hat and dark glasses, walks in. He's fed up with slate and a little with climbing in general just now, but he is a sucker for a good long walk.
I smile and suggest Cloggy, no strings attached. Trevor or Carlos, whoever it is, agrees, after much convincing, that he is keen. We walk up to the crag, and I start up. Bob watches me from Llanberis: "ghoul below the Eigerwand".
I got to the move left, next to Redhead's bolt, down-climbed and lowered off again. Trevor felt ill, so we walked down and had some food and beer.
The next day I was much better prepared mentally and physically, but deep down knew something primitive was being expended on each effort: I was getting psyched out rather than familiar. The wall's mechanics were becoming exterior and disconcerting; there is never a place to get into the rock, no groove to shadow your fear. Just blankness and no gear. I abseiled down the climb a third time, got the holds clean, practiced the entry to the upper flakes, where I had gone wrong twice previously and had to down-climb 30ft on side-pulls and smears to escape.
I tested the RURP in the top overlap. It is in only an eighth of an inch, but is tied off with 2mm Perlon. The RURP is at about 100ft. Above that there is no gear that would hold body weight. Thirty feet below there is an RP2, and this, on "shock tape", provides the crucial gear. This is backed up by a Chouinard one-half biting in a loose flake, and below this is a 2mm Perlon sling and an RP zero. For the other rope RPs 3 and 4 in poor placements and a situ nut 10ft above, which came out. At 45ft there is a Stopper 6 (filed down on Kevlar rope) between two fins - the best runner on "Master's Wall".
The climbing itself is hard, and with eight bolts would rate about E6 6b/c but there is only half a bolt and that stares at you while you laugh at your runners, a tribute both to a man's vision and to his shortsightedness. John Redhead's voyages on this wall deserve special praise. He had already done The Bells at North Stack and was working on the sweeping scoop right of Midsummer. He had one near-fatal fall from high up when, placing a small wire, his foot slipped on a smear, the resin worn off his Canyons. The Stopper 6 took the fall and back up he went. This time he lowered off the Stopper 1, which skated in its placement. Another visit had him jumping for a 9mm abseil rope.
Redhead, frustrated but proud, placed a bolt like a dog pissing to mark his territory, and retreated to recover. An 80ft cameo, fresh but incomplete, The Tormented Ejaculation (E8 7a) rests in his portfolio. But the line remained.
Jerry Moffatt arrived, chopped the bolt, and the Master's Wall remained. Before that, there had been other efforts. Ray Evans and Hank Pasquill had tried the line on sight; failures more impressive than latter successes perhaps; while Mick Fowler had climbed an impressive route in Spreadeagle, which starts in the groove left of The Master's Start and finishes left of the upper section of Moffatt's route. It was my turn to struggle with obsession.
There comes a time when the romance of the climb is crowded out by the raw danger of the route, and this happened on the third day. On the fourth I walked up walk down again, somebody's son and friend.
Imagine the wall. It is a random-woven wire mesh, tilted so that it steepens towards its top. At the base two thick cables disappear in the turf. The lights in the town flicker as you touch the rock. Each move forms an electric circuit between your hands. As you move, you worry about the outcome of that move, the tension a dull hum. Then I make a false move and the rock barks out a spark. I try another hold - but which one to use? Use the wrong one and retreat may be impossible. The gear is poor and a bad mistake could mean a death-jolt full across the heart. So you move, taking note of your position and the holds, but as you move higher the voltage grows and amongst the myriad connections there lie false trails that can kill.
I went up with sticky rubber soles which do not conduct electricity and two friends who knew the score.
At 70ft I felt OK. An automaton in a plastic bag, my brain floated out in space behind me. It had slim threads which blew in the wind but didn't seem to be catching on anything; so I continued. As I climbed I felt as if I was not there, but I wasn't somewhere else either. Just nowhere; alone on the surface. I arrived on the flake, the moves a blur, the body smudged over the rock. I was playing chess with the Woubits gort. On the way up to the crag for only three steps the eyes of the gort are visible: the first and last steps see it wink, the middle step sees its full centuries-stare. I could see it no longer, but I knew it was there with its dagger ears.
In went light pieces of metal, fiddling with unfIoured pastry on the top of my mother's birthday cake when I was twelve. The asymmetric stopwatch was complete.
All the time my mouth would give out these little tunes which disappeared. Then heavy breathing, and then short jerky gulps: shallow panting. In went the RP2 just above. I climb up and begin to live dangerously; steep and sequency climbing on undercuts and dimples just below the point of commitment. I'm 10ft from gear and decide to downclimb as if on the last training traverse on the climbing wall. I come level with the gear. "Slow and smooth," my mouth says as I lower off for a rest.
The release of tension was enough to make me want to stay on the ground, but I knew I would only be back next year. I had no choice. Twenty-five minutes rest and a cigarette and the two sides of my feelings still did not converge. I need to do it, but I desperately want to walk home happy. I knew that would be a lie so I go up to die a little more; homeopathy.
A hundred feet up, out over the last gear, I'm faced with the first of the hardest moves. My anxiety has made me enter the moves before reflection and the rock is all in the wrong place. My body feels heavy and lumpy. I slap out right, a move that should be static, and am committed to the crux, a precarious mantel onto a rounded boss. If I fell on this move the gear off to the left would rip.
Once on the boss you can rest and clip the tied-off RURP, which is most comforting. You stand on your heels, your hands by your side. At this point I noticed a friend whom I'd met while on holiday in Verdon on the belay of Great Wall. His face spoke volumes. I tried smiling to relieve his tension, but that made me relax and so I collapsed back to rest.
I was there for half an hour; totally alone, the overall crux ahead, yet my position physically comfortable. Rescue twenty minutes away. I would have to say 'Yes' and 'No' to the finish five or six times by the time they had reached the top and lowered me a lifeline.
I went for the crux, the motion startling me like a car unexpectedly in gear in a crowded parking lot. I swarm through the roundness of the bulge to a crank on a brittle spike for a cluster of three crystals on the right; each finger crucial and separate like the keys for a piano chord. I change feet three times to rest my lower legs, each time having to jump my foot out to put the other in. The finger-holds are too poor to hang on should the toes catch on each other. All those foot-changing mistakes on easy moves by runners come to mind. There is no resting. I must go and climb for the top. I swarm up towards the sunlight, gasping for air. A brittle hold stays under mistreatment and then I really blow it. Fearful of a smear on now-non-sticky boots I use an edge and move up, a fall fatal, but the automation stabs back through, wobbling, but giving its all and I grasp a large sidepull and tube upward. The ropes dangle uselessly from my waist. Arthur Birtwhistle on Diagonal, I grasp in cuts and the tight movement swerves to a glide as gravity swings skyward.
Indian Face is climbed and I can rest and feel proud: Longland's, The Drainpipe Crack, Bloody Slab, Troach, Great Wall smile in me again, but like fine antiques. The Gallery and Dark Mystic. Yes!
Per chi mastica molto bene l'inglese, ecco un'intervista a Johnny e a Nick Dixon (che ha ripetuto la via nel 1996) sempre proposito di Indian Face:
La via conta ad oggi 4 ripetizioni: Nick Dixon e Neil Gresham nel 1996 e Dave McLeod nel 2010 (http://www.planetmountain.com/News/shownews1.lasso?l=1&keyid=37476), dopo aver rinunciato nel 2007 ritenendo l'impresa troppo rischiosa.
Ecco un bello spezzone tratto da Committed Vol 1 che descrive il tentativo di McLeod del 2007:
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Oggi Johnny arrampica e dà lezioni di arrampicata attraverso seminari che lui stesso organizza.
Così si racconta in un'intervista rilasciata alla rivista americana Climbing nel 2007.
"Beh, sono 29 anni che arrampico ora.
Siccome non riuscivo a raggiungere le prese, ho dovuto provare e tirar fuori come tenermi sulle prese brutte, o come usare le prese di partenza per arrivare a quelle più in alto. Così ho dovuto usare la velocità. Usare la velocità penso abbia spremuto fuori anche i pensieri un po' più in fretta di comee altrimenti sarebbe stato - la velocità è molto... devi usare l'intuizione se vuoi essere svelto.
E poi, quando ho provato a fare i movimenti, sono arrivato a - "Non posso usare quella presa. Come posso usare il mio corpo per essere in grado di usare quella presa". In altre parole, c'è stata anche una parte analitica/riflessiva che si è sviluppata in parallelo. Stavo realizzando che il mio corpo deve farlo senza pensare quando lo fa. C'è sia un lato riflessivo che uno sperimentale. E' di fatto l'unione dei due.
Non devi insegnare al tuo fegato come funzionare, e con il corpo è lo stesso. Il nostro corpo è qualcosa che ci è stato rifilato, e poco a poco puoi far sì che le tue emozioni ed i tuoi pensieri comunichino alla tua mente come lavora il tuo corpo, così che tu possa agire davvero velocemente. Un esperimento interessante è provare a muoversi prima di muoversi - il che suona un po' senza senso - ed è senza senso! Se ci provi, a prendere una presa, e ne cominci ad avvertire la forma, e poi aspetti, e aspetti, e alla fine ti muovi. Se riesci in qualche modo a muoverti prima di muoverti, il risultato è che ti stai muovendo veramente veloce!"
Dawes su Sad Amongst Friends, E6 7a
"Forza e potenza arrivano dalla consapevolezza di che cosa fare e dal fare solo quello. Se spegni tutti i muscoli a parte quelli che servono per fare un movimento, sei molto più forte. E invece di impiegare conque anni per diventare più forte ci puo mettere un'ora e mezza... se impari veramente come spegnere gli altri muscoli.
I tuoi muscoli servono a tenerti in una posizione, altrimenti andresti per terra come un sacco di patate, come se fossi ubriaco fradicio. Se sei capace passare da quella posizione da ubriaco a quella del "Pensatore" di Rodin in mezzo secondo perché hai in mente com'è fatto il "Pensatore" in 3D, puoi capire di cosa sto parlando. Se sei capace di passare da una posizione all'altra allora sei un bravo arrampicatore."
"A proposito delle headpoint? (salire una via dopo averla provata con la corda dall'alto)
Quello che successe è che ero spesso in falesia da solo perché andavo in falesia sempre, e non tutti volevano venirci così spesso. Andavo sempre, che piovesse o no. Mi piaceva la falesia. E' dove gustavo la vita. Prima di provare qualsiasi nuova salita provavo tutte le vie della falesia - volevo prendermela con calma, e volevo fare tutte le salite in tutte le pareti del Peak District, così scalai più o meno tutte le vie su gritstone del Peak District. Alcuni posti erano messi proprio lontano perciò non scalai là, e c'era anche qualche via con lunghi avvicinamenti da incubo, e da quelli stetti alla larga.
Ma quelli il cui percorso era ben visibile dal basso, quelli li volevo scalare a vista, cose come Narcissus, One Step Beyond Direct, Mint 400, tutta questa roba sul 7b+/7c completamente a vista, scalando su questa specie di gomma moscia e appiccicosa e con condizioni non ottimali, perché scalavo sempre, così a volte mi trovavo nel bagnato, e certe volte c'era troppo un cazzo di freddo. Ma questo è ciò che facevamo. Non avevamo palestre indoor, e se ce le avessimo avute probabilmente non avremmo imparato così tanto.
Le palestre erano interessanti per la sperimentazione, ma non erano un gran che per acquistare veramente forza. Questo è stato l'insieme di fattori che mi ha messo in grado di fare quello che ho fatto. E le headpoint non furono altro che guardare quegli altri pezzi di roccia che erano sporchi, e per vedere se fossero arrampicabili dovevi pulire le prese per attaccartici, perché erano linee veramente futuristiche nel 1984/1985. Non avevano proprio prese. Non avevano protezioni e apparivano completamente folli."
Domanda: Pensi ti sia sfuggito qualcosa, quell'anno (il 1986)?
"Mi sono sfuggite un sacco di cose. Mi è sfuggito un piede precario su Indian Face e ho dovuto rimetterlo sull'appoggio a colpetti senza poterlo guardare, perché dovevo sapere dove fosse. E tutte le tecniche dinamiche e quelle cose che metto nelle mie lezioni arrivano da ciò che ho imparato in situazioni come questa. Il tuo corpo sa dove stanno le prese - se ci credi, è fatta. E' la sospensione dello scetticismo che genera le convinzioni corrette. E c'è bisogno di imparare come questo avviene in modo da non fregarsi, e questo può essere fatto in un modo duro e in un modo piacevole.
Ho conquistato cose e ne ho lasciate cadere altre, ma ho anche e soprattutto imparato come cadere (I went up on some things, and I fell off things, but most of it was learning how fall as well: gioco di parole difficilmente traducibile). Siccome non c'erano crash-pad. Ma non eravamo abituati a scavare buchi o livellare il terreno. Sono volato da 7/8 metri fino a terra, forse 5 o 6 volte, durante dei tentativi a vista. Era un'etica piuttosto dura. Era dura perché per me per l'arrampicata ne valeva la pena. Era la cosa migliore dopo il pane affettato. Pensavo che il resto del mondo fosse davvero una merda imbarazzante. Pensavo che le persone non veramente pazzesche, e molto di questo era solamente autodifesa.
Non mi sentivo molto equilibrato e non mi pareva di poterci star dentro del tutto. Ero molto narcisista, motivo per cui il mio libro è intitolato "Full of Myself" ("Pieno di me"). Perché ero assorbito dall'arrampicata per il gusto di fare qualcosa di incredibile, e perché è un'attività così esigente ed eccitante, e per sentirmi parte di un gruppo ed il piacere di essere acclamato. Però era una cosa secondaria, non credo abbai potuto da sola generare qualcosa di così forte da farmi arrampicare così come ho fatto. Avevo un'affinità elettiva per la roccia che andava oltre tutto questo, che mi fece capire che qualcosa non andava e che mi fece provare a fare qualcosa per sentirmi realizzato e felice. E così "Full of Myself" significa anche sentirmi tranquillo - "Full of Myself" è da una parte egocentrismo e dall'altra completamento. Sento che sono passato attraverso buona parte di tutto questo. Sono pronto per scriverne, per affrontarlo."
L'intervista completa in inglese potete trovarla qui: http://www.climbing.com/exclusive/features/dawes/index.html
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Per concludere, qualcosa a proposito del metodo di insegnamento con cui Johnny conduce i suoi training camp. Anche in questo caso tutto si può dire tranne che manchi di originalità.
In questa testimonianza: http://climbingcoach.blogspot.com/2009/04/declumsification-johnny-dawes.html apprendiamo che il suo approccio al movimento passa attraverso tre concetti base: la Forma, la Voce e il Volto.
La Forma è il prodotto finale, la forma che assumerà il movimento più efficace per arrivare alla presa, e va immaginata prima di provare il movimento. La visualizzazione diventa uno strumento molto potente.
La Voce è il suono che viene associato al movimento, che può aiutare a controllarne il tempo e l'intensità.
L'ultimo aspetto, il Volto del movimento, è la faccia che l'arrampicatore ha quando tiene la presa. E' qualcosa che di nuovo riconduce al processo di visualizzazione, un altro strumento che per aiutare l'immaginazione ad essere più vivida ed efficace.
Apparentemente senza rendersene conto (non ha un background scientifico in questo campo, cosa che invece possiede l'autore della testimonianza) Johnny sfrutta diversi metodi mentali che utilizzano gli psicologi dello sport e li adatta all'approccio dell'arrampicatore.
Johnny considera la conoscenza implicita del movimento molto più che la regola esplicita che lo traduce.
Questa è un'altra testimonianza in forma narrativa da parte di una persona che ha seguito uno dei suoi seminari:
Scene: The Fox House car park.
Dramatis personae: A motley cast of climbers.
The play? A hybrid of Six Characters in Search of an Author and Waiting for Godot, entitled Waiting for Johnny. We’ve all sent off our cheques and our questionnaires with answers to ‘Your Favourite Route’, ‘Your Favourite Move’ and ‘What do you hope to learn from the session?’ Now we await the maestro to cast and direct us. Our thoughts glide from the external question ‘Where’s Johnny?’ to the internal question ‘Why are we here?’ Some have heard good things about his indoor wall workshops, others want to improve their grade. Another reason we’re here is just to climb alongside one of the heroes of British
climbing. You’re an artist: wouldn’t you want to see Picasso at work? You’re a Grand Prix enthusiast: wouldn’t you love a day at the racetrack with Schumacher? I suspect another reason we’re here is to compare the man with the myth. The myth is powerful: JD the Zen master of pure climbing – the Galahad rescuing us from the powermerchants crimping away at their fingerboards – the exemplar of
Huizinga’s ‘primordial quality of play’.
Time ticks on. Where’s Johnny? My gaze shifts from the road’s horizon to the sky and the trees. I half expect Johnny to parachute in or leap from the treetops wearing a flying squirrel zip-up suit. But, no, he’s not that eccentric. Here’s Johnny. A shaven-head pops out of a wounddown car window and asks
disarmingly, ‘Been waiting long? Annoying, isn’t it? Anyone fancy a cup of tea?’ We follow the Pied Piper to Grindleford Café. Johnny stops his car and emerges holding a clipboard – ‘My attempt at professionalism’, he jokes. We kneel before a scrawled mandala. Johnny’s providing an explanation at
subliminal speed. Apparently the climber’s consciousness should be like that of a leaf. The sense of
self should disappear. I flippantly ask him if one should retain sufficient sense of self to claim new routes. I think Johnny’s already cast me in the role of sceptic.
We walk to the café. I’m ‘redeeming’ myself by regaling JD with the weird Zen experience I had climbing alone at a local quarry; a loss of selfawareness and a feeling of total harmony with the rock. He seems interested in this, as though I’ve had a sighting of a fabled creature. Over a cup of tea, JD
explains that he’s had a heavy night, that he’s not really in the mood for climbing, he’d rather be watching the Grand Prix qualifier, and that he’s strained his shoulder attempting a onehanded ascent of Master’s Edge. Then he’s babbling away about his idea of a board game for climbers (something about a
pulsating planet, a character called Io, and a 3-D board). As he free associates, his hands and arms accompany his ideas with climbing gestures. We strain with rapt attention to distil and capture the coded wisdom. Now we’re turning Grindleford Café into the set of West Side Story. First Johnny, then all of us, jump and pirouette against the café wall, leap across gaps, and hop on one leg (all under the
bemused gazes of tourists and cyclists). First lesson (about balance, weight transfer and dynamic movement) over, we head for Lawrencefield.
Thankfully, someone’s brought a rope, because Johnny suggests we set up a toprope on the Gingerbread Slab. The hot, midge-ridden afternoon passes in a series of exercises – the script for which JD seems to be writing as he goes along. Some of us are climbing one-handed, then nohanded up the slab; some are
building precarious towers of pebbles; and others are attempting balancy boulder problems that Johnny has identified. In between, we’re chatting to Johnny about his climbing experiences, and offering him food and drink. He’s charming and enthusiastic, and concerned to know what we all want to do or learn. I ask him if he can show me how to dyno. Then Johnny’s climbing the slab with no hands. Picture a giant
rabbit hopping from one leg to another, performing subtle switches of body weight, before failing on some outrageous nohands dyno. We gasp and laugh at this bravura exhibition. One chap from another group of climbers asks with acerbic humour, ‘And you’re paying to watch him do this?’
Drizzle descends in the late afternoon, we decamp to some blank wall that JD once toproped. Johnny’s buzzing with remembered excitement as he lists the sequence of moves and holds. The day ends in the early evening under the Embankment at Millstone. Johnny’s pointing out routes and answering our questions, but I sense he’s becoming restless. He’s given of himself all day and now wants to move on to new toys. For the first time I catch a glimpse of another aspect of the man; the playful, ebullient, mercurial spirit mutates into a more pensive, darker, restless persona. JD cadges a roll-up from some
acquaintances. Then we walk back to the car park and the curtain falls on our Climbing with Johnny Dawes workshop. I bid farewell to the others. As we say goodbye, our eyes and faces seem to say ‘That was... interesting.’ As I drive back, classical music soaring amidst the beauty of the Peak District, I reflect on what I’d learnt. I’d asked JD about what certain exercises were teaching us. He found the
question rather mystifying, and simply asked in return, ‘What do YOU think it’s teaching you?’ As
a teacher myself, I found the absence of structure, aims and objectives slightly disconcerting.
JD wasn’t the clearest expounder of his ‘philosophy’. Or maybe it was his ideas that were fuzzy?
Maybe geniuses don’t make the best teachers? Perhaps they don’t know how they do what they do, and therefore can’t communicate it? Or are they reluctant to analyse their gift for fear it might desert them ? And yet, everyone on the workshop had expanded his or her horizon of possibility; all had gained some
new personal climbing wisdom. By observing JD in action – and by responding to his enthusiasm – we had deconstructed mental and physical barriers. We had learnt to see our bodies and the rock afresh. As Carlyle wrote of Great Men, ‘You will not grudge to wander in such a neighbourhood for a while.’ Being in the company of a great climber unleashes some trapped potential within lesser climbers. So much
so, that the next time I climbed I’d catch myself thinking – as I did some stylish move – “Johnny would have done it like that.” To cap it all, I leapt like a circus acrobat onto a foothold on a blank slab, landed it, shifted my body position, balanced, and stood up. Now, Johnny would have been proud of that! Bugger never did show me how to dyno (with hands), though!
Marc C
(http://www.ukclimbing.com/forums/t.php?t=331399)
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Fonti:
Le fonti sono state citate nel corso del post; molte delle immagini sono tratte dal sito ufficiale di Johnny: http://www.johnnydawes.com/
Pezzo manumentale, ci ho messo tanto a leggerlo tutto e a vedermi bene i video. Conoscevo poco di Dawes, personaggio decisamente interessante. Uno così non può non essere un riferimento.
Al solito ti faccio i miei complimenti, avere la pazienza e la voglia di indagare e scovare certe cose non è semplice.
Scritto da: bummi | 02/25/2011 a 02:07 p.
grazie!
Scritto da: climbing_pills | 02/25/2011 a 02:12 p.