Primi di ottobre 1985. La scoperta della libertà.
Non è facile da descrivere. Ti arriva addosso come una tempesta, la libertà. Oppure come un vento leggero, quasi impercettibile. La scopri all'alba. Oppure in piena notte. Una bella notte scura di ottobre, col cielo limpido e tante stelle, mentre nel buio ascoltiamo i Level 42.
La macchina di Andrea risale le curve di una strada vicino Finale Ligure, dopo un ricco piatto di trenette al pesto in trattoria ce ne torniamo alla nostra locanda, ai nostri sacchi a pelo. Accanto ad Andrea, che guida costantemente con una sola mano sul volante, c'è Laleh. Dietro, messi un po' stretti, io e i due Roberti. Prima di dormire ripensiamo alla giornata di oggi, parliamo ancora un po' di vie e di passaggi, e già sognamo, mentre gli occhi si stanno per chiudere, l'indomani.
Ma facciamo un piccolo passo indietro. Una settimana prima.
"Papà, volevo dirti che tra qualche giorno parto. Vado ad arrampicare in Francia con degli amici. In un posto in Provenza che si chiama gole del Verdon. E' un posto molto famoso, bellissimo..."
"No Luca, non sono d'accordo. Ma cos'è ora questa storia? Ma come ti è venuto in mente? Siamo a settembre, le vacanze sono finite. E mi sembra che quest'anno ne hai fatte abbastanza. Tra non molto partiranno i corsi all'università. Forse è il caso che cominci a entrare nell'ordine di idee... E poi è autunno, fa freddo. Ma dove vai!"
"Ma papà, proprio perché i corsi iniziano ai primi di novembre... Ora non ho niente da fare. Il mio amico Andrea, che è più grande e già ci è stato, mi ha invitato ad andare con lui. Siamo in cinque. C'è anche Medioverme, cioè Roberto, quel ragazzo che è un forte alpinista, e si è iscritto come me a Geologia... E' un'occasione unica. Si sa che le vacanze dopo la maturità sono le più lunghe in assoluto".
"Hai diciotto anni, no? Quasi diciannove. Sei maggiorenne, fai come vuoi. Tua madre è d'accordo immagino. Fai come vuoi. Comunque sappi che non hai il mio assenso".
Ah, sai che m'importa se non è d'accordo. Ma come potrebbe capire questa cosa, del resto? Non l'ha mai vista, lui, una foto del Verdon. Luna bong, Dingomaniaque, Pichenibule, Fenrir, Chrysalis: questi nomi per lui non significano niente. Ma per me sì. Conosco a memoria le foto del libro di Edlinger. Il Verdon è in questo momento, molto semplicemente, il mito. Sta sul gradino più alto nella scala dei miei desideri.
Tutti i miei sogni più astratti e inafferabili, tutte le mie ambizioni, la mia voglia di vivere, convergono simbolicamente nell'arrampicata. E tutta l'arrampicata tende a sintetizzarsi, a trasfigurarsi, in quest'unico punto, quest'unico nome, Verdon. Vedo più erotismo in una scarpetta di Edlinger che gratta su quel calcare magicamente grigio, che in qualsiasi minigonna delle mie coetanee.
Nell'ultimo anno di liceo si sono fatte avanti, con modi diversi, oltre a Valeria, un'arrembante Patrizia, una timida Laura. E io? Niente. Sogno forse un angelo, la donna ideale. Ma intanto guardo le immagini di quelle dita scorticate e fasciate di cerotti, quegli spit messi in fila sopra 300 metri di vuoto. Quell'ubriacatura di placche strapiombanti, di fessure, di gocce.
Io voglio il Verdon. E questa occasione non la perderò.
Partiamo da Roma con la 127 azzurrina di Andrea. Gomme quasi lisce: poco dopo Genova buchiamo e ne cambiamo una. Quella di scorta è ancora più liscia. Per spezzare il viaggio facciamo tappa a Finale. Andrea saluta alcuni amici. Facciamo una giornata di arrampicata a Monte Cucco, e ripartiamo la mattina dopo.
Arriviamo nel pomeriggio a La Palud. Il campeggio di sotto, quello più bello e "turistico", è chiuso. E' aperto soltanto quello sopra, più piccolo. Pieno di arrampicatori di ogni angolo di Europa. Tantissimi spagnoli, che hanno fatto una specie di campo a sé. Ma poi tedeschi, olandesi, inglesi.
Il campeggio è davvero piccolo, le tende stanno l'una accanto all'altra, e il clima è a dir poco umido. I bagni sono in condizioni tali da suscitare qualche vibrante protesta di Laleh nei confronti di Andrea. Io mi sento afferrato da una sorta di energia elettrica, di frenesia, un continuo batticuore, come quando da piccolo vai al Luna Park e stai per salire sulle montagne russe.
"Dai, sbrigatevi a piantà 'sta tenda - sbotta Andrea - che dopo, visto che c'è luce, vi porto a vedere il Canyon. Domani andiamo a fare una bella cosa per cominciare: Pichenibule".
L'arrivo alla sommità della Falaise de l'Escalès è davvero impressionante. Si segue una strada che in apparenza è uguale a tante altre strade di campagna. Colline di qua e di là, campi di lavanda, profumo di Provenza. Poi così, all'improvviso, un tornante. "Ecco - dice Andrea - scendiamo qui a dare un'occhiata. Qui siamo sopra Mescalito. Un po' più avanti, all'altro tornante, ci sono le doppie di Luna Bong... Vedrete mo che roba!".
Scendiamo dalla macchina e ci avviciniamo al muretto in pietra alternato a robuste doppie sbarre di ferro. Aria fresca sul viso, umidità, un leggero rumore di torrente. E poi lo sguardo che letteralmente vola giù nel vuoto, nel vortice di quei 300 metri di nulla che costeggia la roccia. La parete sembra scomparire sotto di noi. Si fa fatica a seguirla con gli occhi.
Mi sembra impossibile che uno venga in questo posto per arrampicare. L'idea di fare una doppia e calarmi lungo quel muro così ripido, sospeso sopra quel fiumicello esile e azzurrino, mi sembra totalmente insensata: una cosa innaturale, che cozza contro ogni razionale buon senso. Il mio istinto mi dice di tirarmi indietro da quel belvedere. Ho le vertigini, vorrei ripensarci, vorrei non essere qui.
Eppure. Il paradosso. Sono venuto qui per questo. Sono venuto qui per farlo. Per sprofondarmi nella vertigine. Sono qui con il mio imbraco e le mie scarpette, con questi amici, per giocare con quella roccia a strapiombo.
Domani ci caleremo giù, e risaliremo per Pichenibule. Andrea così ha decretato. Ci ha anche rassicurato: tutto 6a, con un paio di brevi tratti di 6c.
"Porca troia, che vuoto!"
Risaliamo svelti in macchina. Cento metri, un altro tornante. Tutti di nuovo fuori ad affacciarsi, a guardare giù verso il fiume, a sentire quel freddo che ti vibra nel corpo. Come in un rito esorcizzante. Siamo sovreccitati. E poi di nuovo in macchina, fino al belvedere più famoso, La Carelle, dove c'è la mitica Papy on sight, il 7c+ liberato da Jerry Moffat...
Improvvisamente Andrea si volta verso di me. "Luca, dov'è la scatola con le cassette?!"
Le cassette musicali. Le cassette che Andrea s'è registrato una per una, con i suoi gruppi preferiti, con i Level 42 e Jackson Brown, il rock ed il blues, ecc. ecc. Su ogni cassetta c'è il titolo dell'album, e all'interno tutti i titoli dei brani. Si vede che alle sue cassette Andrea ci tiene molto. Le tiene così, belle ordinate, in una grande scatola da scarpe che sta in macchina. Cioè. Dovrebbe stare in macchina. Ma ora dov'è?
"Cazzo Andrea... Avevo la scatola qui sulle mie ginocchia. Quando siamo arrivati al primo belvedere siamo saltati giù, e credo di aver appoggiato la scatola sul tetto della macchina. Poi siamo ripartiti così in fretta..."
Altro che brividi. Adesso ho il sangue congelato, di paura e di vergogna. Andrea non dice nulla. Mi guarda dritto negli occhi con un'espressione di ghiaccio. Neanche gli altri osano dire nulla. Risaliamo in macchina e torniamo indietro al primo tornante. Il panico. Le cassette sparse per tutta la strada, aperte, mezze rotte, insomma un gran casino. Un paio non si trovano più...
Questa non so se Andrea me l'ha mai perdonata.
Torniamo al campeggio. La sera andiamo al bar, il bar della piazza di La Palud. Si mangia lì. C'è una botola sul pavimento, e dal seminterrato salgono fumi e pietanze calde: uova, carne, patatine fritte.
Il giorno dopo andiamo a fare queste benedette doppie su Pichenibule. La partenza non fa paura. Una placca appoggiata, che però diventa sempre più ripida. Uso il vecchio trucco di chi va in montagna e soffre di vertigini: non guardo il fondo del canyon, dove gli alberi sembrano ridicoli puntini verdi. Arrivo al massimo al terrazzino venti metri sotto. E poi guardo continuamente il discensore. Guardo gli altri: mi sembrano tutti un po' più tranquilli di me.
Non ci caliamo fino in fondo, ma fino a un "jardin" intermedio. Dovremo fare così solo 5 tiri. Si comincia ad arrampicare, e va tutto bene. Andiamo in obliquo verso sinistra, sol bordo di grandi strapiombi gialli. Qui la ritirata (con le doppie) è impossibile. Bisogna per forza uscire. Il tiro di 6c di Pichenibule tocca al Ciato, che se la cava egregiamente. Da secondi anche io e Roberto saliamo bene (Andrea fa cordata con Laleh).
Arriviamo sotto la pancia strapiombante del tiro di artificiale (o in alternativa di 7b+! grado da cui siamo lontani anni luce...). Davvero impressionante. Non riesco quasi a guardarlo per quanto mi incute timore. Mi sorge un profondo rispetto interiore, ancor maggiore di prima, per gente come Edlinger o Berhault che di lì è passata in libera. Noi si era già deciso che saremmo usciti a destra per Ctuluh, fantastico tiro di 6c+ a buchetti, tecnico. Una placca verticale che tocca in sorte al Medio. Non la fa proprio on-sight (ricordo bene?), però va su, il che non è poco, vi assicuro. Un tiro che mette paura anche da secondi: qui siamo quasi in cima, e l'esposizione è davvero incredibile!
Il giorno dopo è la volta di Surveiller et punir, primi due tiri + uscita per Frimes et chatiments. Il che tradotto vuol dire: 6b+, 6c, 6c+ (o AO), 6a+, 5c. Facciamo cordata io e Medio. (Per la cronaca devo ricordare che a quel momento la difficoltà massima che ho salito in libera è 6b; a vista 6a+...).
Stavolta stabiliamo che il tiro di 6b+ lo fa Roberto, mentre il 6c toccherà a me! Sono abbastanza gasato. Su qualche 6c nostrano (La mistica giraffa, Rank Xerox) mi ero più o meno mosso bene. Sul primo tiro, con la corda davanti, salgo senza fare resting. Lascio Medio in sosta e parto così per una placca grigia strapiombante. Mi fa pensare un po' a Sperlonga, una roba tipo Prondo prondo, però come tiro è molto più lungo, molto più continuo. Due, tre, quattro spit. "Medio blocca!!!". Provo a riposarmi un po', ma gli avambracci sono duri duri.
"Robbe', non ce la faccio. C'è uno spit lontano e sono stanco. Forse è meglio che vai tu..."
"Non stare a rompere! Dai, riposati e poi vai, che ce la fai benissimo!"
Ok. Riprovo. Cazzo che viaggio arrivare a quello spit... Vabbé, 'sto buco è buono, piede lì, questa tacca la tengo, e su, ancora, ancora, dai, uffa! Mi sto stancando. Aspetta. E ora che faccio, torno indietro? No, sono sfinito. Però sono un metro sopra lo spit, ho paura a dire "blocca". Dai che ce la faccio ad arrivare. Ancora un poco, no, non ce la faccio. Le mani si stanno aprendo, si stanno aprendo.
E poi un urlo tremendo (di chi precipita e sta per morire) echeggia nelle Gorges du Verdon...
"AAAAAAHHHHHHHH!"
Vedo il cielo, e poi un istante dopo vedo il fiume. Sono a testa in giù, la corda mi è passata non so come sotto l'ascella, ustionandomi vicino al tricipite. Però sono vivo! E stranamente mi trovo appeso quasi giusto sopra la testa di Roberto.
"A Robbe', mortacci tua... Adesso ti sei convinto che è meglio che vai tu?"
Sorridiamo. "Sei proprio una pippa!" mi fa. Con la pazienza del vecchio alpinista, neanche ventenne però col Diedro Philipp nel suo curriculum, Medio si fa passare i rinvii e parte. Qualche breve resting e va su, finché non supera il tratto strapiombante e scompare dal mio sguardo. Parto da secondo, ma sono davvero sfinito, così mi appendo. Da sopra mi arrivano delle urla disumane: "Porco***, puoi evitare di appenderti? Fatti un'autosicura e ti blocchi sugli spit!".
Quando arrivo in sosta capisco tutto. A Sperlonga siamo abituati a dei tiri di massimo 7-8 spit. Ma qui ce n'erano almeno 11-12. Roberto ha finito i rinvii. L'ultimo moschettone lo ha utilizzato per assicurarsi alla sosta, e mi ha fatto sicura a spalla stando a cavalcioni su di un albero che sbuca in mezzo all'oceano di calcare.
Al Medio gli tocca ripartire, e sta già un po' avanti quando sotto di me vedo arrivare bel bello, ma anche lui un po' acciaiato, l'altro Roberto...
Nei pochi giorni seguenti, abbiamo abbassato un po' il tiro. Anzi no. Andrea ha voluto farsi un giro top-rope su Papy on sight. Commento: "La pinzata fa davvero schifo, però sono riuscito comunque a fare il lancio!"
Anche Medio si farà calare per andare a toccare quella mitica pinzata (dai e dai, diventerà una delle prese più unte del Verdon!). Io mi astengo invece, per una volta, da un gesto che mi sembrerebbe davvero presuntuoso: mettere le mani su un 7c+...
Mi godo il resto della vacanza. La full-immersion in quel popolo di barbari che sono gli arrampicatori del profondo Nord, specie dopo qualche giorno di tenda... Gli spagnoli che si fanno canne in continuazione... I due francesi a cui Andrea e Ciato danno una bella lezione di biliardino (ce n'è uno al bar), riuscendo a batterli nonostante quelli facciano girella e usino fare - eresia! - il passetto!
Insomma. Proprio una bella vacanza. E la convinzione, oramai sperimentata direttamente, che il Verdon è un luogo F-A-N-T-A-S-T-I-C-O.
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