Nel post su Patrick Berhault il nostro amico francese individua l'inizio della "rivoluzione" (dall'alpinismo tradizionale all'arrampicata sportiva) nella visita in Verdon dei britannici Peter Livesey e Ron Fawcett, nel 1978.
(Ron Fawcett on Joker's Wall)
Chi sono? E soprattutto... britannici? Ma come, a scuola ci hanno insegnato che in Inghilterra non ci sono montagne degne di nota, ed ora apprendiamo che non solo in Inghilterra si scala, ma pure che gli inglesi danno lezioni di arrampicata a chi vive fra le Alpi (e ai francesi, per di più)!
Bene, facciamo un passo indietro e torniamo alla primavera del 1975, alla scoperta di un episodio curioso e per certi versi rivelatore.
(Llanberis Pass)
Fra gli alpinisti italiani invitati c'erano anche Rys' Zaremba (il primo maestro di Pierluigi Bini, vedi nel post dedicato) e Gianni Battimelli, invitati dall'alpinista inglese Alan Heppenstall che era stato a Roma per alcuni mesi e che aveva fatto amicizia con loro.
Ad accogliere i nostri c’erano alpinisti del calibro di Pete Livesey (che gli italiani soprannominarono subito “cespuglio” per i folti capelli ricci), Pete Boardman, Joe Tasker e Dick Renshaw (due ragazzini dall'aria mingherlina e stracciona che si erano bevuti in una sola stagione le 5 Nord più dure delle Alpi), e la forte arrampicatrice Jill Lawrence.
Fu un incontro tra il vertice dell’alpinismo italiano e il meglio di quello anglosassone: l’incontro-scontro tra le tecniche di scalate in quota e l’arrampicata di falesia. Scarponi e martello contro scarpette a suola liscia, imbragatura bassa "Troll Don Wihllans" e nuts; casco contro capelli lunghi; alte pareti alpine contro "crags" (falesie) di poche decine di metri.
I nostri non riuscirono ad alzarsi su quelle pareti brevi e lisce; Renato Casarotto pronunciò la celebre frase “I xè superiori” e andò a comprarsi un paio di EB.
Le difficoltà degli italiani, oltre che al diverso approccio ed ai materiali meno all'avanguardia, erano dovute anche al diverso tipo di roccia delle falesie inglesi, che richiedeva una confidenza con l'arrampicata in aderenza a cui non erano affatto abituati e per cui i loro scarponi erano del tutto inadeguati. Il gritstone britannico è un tipo di arenaria a grana grossa di deposito fluviale ed è una roccia che presenta spesso superfici liscie ma che offrono grande attrito (grip).
Ecco qualche fotografia che rende l'idea del tipo di habitat degli scalatori inglesi:
(Prima degli anni '70 anche gli inglesi usavano gli scarponi: Almcliffe grit, da "The Book of Modern Mountaineering" pubblicato da Malcolm Milne, 1968)
(poi cominciarono ad usare scarpe più leggere e flessibili con suole in gomma. Questa è Elder Crack, un off-width salita da Joe Brown addirittura nel 1950; la foto è invece del '77)
Per i più curiosi, ecco l'articolo originale scritto da Battimelli e pubblicato sullo speciale "Momenti di alpinismo" della Rivista della Montagna, nell'aprile 1987 (per leggere i testi cliccate sulle immagini per vederle a dimensione intera):
E questo è un breve racconto di Battimelli in merito ad una di quelle giornate passata con Pete Boardman (che negli anni dal 1975 a quello della sua morte, il 1982, compì salite di valore assoluto in Himalaya, prima fra tutte la parete Ovest del Changabang con Joe Tasker, oggetto del famosissimo e pluripremiato libro "La montagna di luce"):
Oddio questo vuole fare ancora una via. “Dai Pete, per oggi abbiamo fatto abbastanza, non ho più voglia di arrampicare, andiamocene in paese a mangiare fish and chips e a berci un boccale di birra, lo so che ti piace la birra …”. Ma Pete è irremovibile e in capo a pochi secondi mi ritrovo appeso alla doppia, sotto c’è un mare nero e schiumeggiante che non è il caldo Tirreno di Gaeta, questo è l’Atlantico gelido e tempestoso, mammamia quant’è brutto.
Urla, richiami, il fragore delle onde… Un po’ a sinistra Rys’ fila la corda all’altro Pete, il grande Livesey, alle prese con un muro all’apparenza desolatamente privo di appigli. The God, come lo chiamano qui (tra di noi lo abbiamo battezzato più irriverentemente Cespuglio per via della chioma ricciuta e scomposta), svolazza con disinvoltura tra gli strapiombi e scompare alla vista. Easy rubbish, beato lui. Il ‘mio’ Pete discute lì in alto con un diedro verticale, allungando il collo riesco a vedere che c’è un chiodo fisso, una rarità da queste parti. La testa di Pete fa capolino dall’alto, “this is not for aid”. Sarà meglio che non toccho quel chiodo altrimenti questi sono capaci di mandarmi a letto senza cena. Fuori tutti discutono animatamente, 5° nel primo tiro, oh yes Civetta conosco, io e Pete ci scambiamo uno sguardo complice: “Adesso fish and chips, d’accordo”?
Pete si allenava per l’Everest in quei giorni, e sulla cima dell’Everest sarebbe arrivato l’estate successiva, quell’Everest da cui la seconda volta non è più tornato. Altri hanno detto della sua bravura, dei suoi successi. Io ricordo quel suo muoversi da gatto sornione su per le rocce di Anglesey, l’eterno sorriso di ragazzo grande e buono, una tranquilla giornata trascorsa legati insieme e una stretta di mano, “nice climbing day Gianni”.
(da Alpinesketches)
Livesey era certamente il più forte in arrampicata (e riconosciuto come tale), ma non dava l'impressione di allenarsi in modo specifico. Intanto, beveva birra in quantità industriale, più o meno in linea con gli altri british della compagnia, da Boardman a Edwards, inclusa la sua compagna Jill Lawrence... e proprio davanti a un gran boccale di birra, alla nostra domanda su come si allenasse per fare quello che faceva, rispose semplicemente: "climbing".
Forse più in direzione dell'allenamento specifico per l'arrampicata è andato, negli anni immediatamente successivi, Ron Fawcett, e poi la generazione che è seguita.
(Ron Fawcett)
(Livesey e Barber sulle scogliere della Cornovaglia)
Quando parliamo di arrampicata "sportiva" in Gran Bretagna alla fine degli anni settanta dovrebbe essere chiaro che non c'entra niente l'arrampicata "sportiva" come la intendiamo adesso, qui da noi. Di "sportivo" c'era lo spirito, il livello delle difficoltà superate dai migliori, e una idea assai forte di cosa fosse da intendersi per "arrampicata libera" (gli inglesi sfottevano allegramente il concetto di "libera" che ancora si usava sul continente, e chiamavano con non celato disprezzo "french free" la pratica di tirarsi sui chiodi in voga nelle falesie francesi e altrove). Di spit, all'epoca, manco a parlarne, il gioco era comunque assolutamente "trad" e le protezioni...
Ad ogni modo l'esperienza oltre Manica servì agli alpinisti italiani per entrare in contatto con un diverso modo di approcciare la roccia, ed aprì loro la mente sia dal punto di vista dell'attrezzatura sia da quello dello stile di salita.
(Gianluigi Vaccari a Rocca di Corno a Finale con i preziosi souvenir del viaggio oltremare)
In questo periodo ci furono naturalmente altri punti di contatto fra anglosassoni ed europei; in questo senso una figura molto importante fu quella di Mike Kosterlitz, scozzese, giunto a Torino per frequentare il Politecnico all'inizio degli anni '70. Mike arrampicò con molti alpinisti piemontesi dell'epoca, ed in particolare con quelli più "avanti" nella mentalità (coloro che dettero luogo al movimento del "Nuovo Mattino"); essi non conoscevano le nuove tecniche in voga oltremare (UK) ed oltreoceano (USA) e Mike - oltre a tecnica e mentalità non comuni - fece loro conoscere i nuovi materiali, in particolare i nuts (blocchetti metallici ad incastro).
Episodio emblematico fu l'apertura di una via sulla Torre di Aimonin, parete che troneggia sopra l'abitato di Noasca, in Valle dell'Orco. Era il 1973: Gian Piero Motti, in cordata con Kosterlitz, escogitò un "pesce d'Aprile" alla cordata seguente (Ugo Manera e Guido Morello). Ugo, dopo aver pericolosamente e faticosamente risalito il diedro centrale della via chiedendosi come i primi due fossero riusciti a passare senza proteggersi (non aveva sentito chiodare fino a quel momento), si vide poi sventolare sotto il naso da Gian Piero una mazzetta di nuts, allora praticamente sconosciuti. La via venne appunto chiamata Pesce d'Aprile e rimane tutt'oggi una delle arrampicate più belle e frequentate della Valle.
Ma la via simbolo di quell'epoca ed uno dei capolavori di Mike Kosterlitz (quel giorno in cordata con Gian Piero Motti e Gian Carlo Grassi) fu la via del "Sole nascente", in cui lo scozzese diede dimostrazione che la lavagna di roccia del Caporal poteva essere salita anche dove le sue placche apparivano più compatte e levigate e sbalordì tutti superando in arrampicata libera tratti - per l'epoca - di estrema difficoltà (attorno all'odierno 6a).
Ma questa è un'altra storia, e la racconteremo più avanti.
(il traverso, secondo tiro di Sole Nascente)
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Fonti:
Gianni Battimelli su PlanetMountain e FuoriVia
Supertopo
Alpinesketches
altre cose troppo sparse per essere riportate in dettaglio...
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