Settembre 1972: Gian Piero Motti è un alpinista al bivio. Scalata dopo scalata, ha scoperto sulla propria pelle che l'arrampicata può diventare una droga. Così scrive il famoso articolo "I falliti", dedicato a chi non sa più vivere senza montagna. È il passaggio fondamentale che lo porta ad aprirsi oltre i confini dell'alpinismo piemontese, oltre i miti-doveri della tradizione eroica, e a diventare protagonista e ideologo del movimento del "Nuovo Mattino". Da quel momento inizia un'incessante ricerca per lo sviluppo di un'avventura dal volto umano. Scopre la pareti calcaree delle Prealpi francesi, apprende l'etica dell'arrampicata californiana e approfondisce le tecniche orientali di meditazione. Diventa il punto di riferimento per una generazione di alpinisti inquieti.
Qui di seguito riporto proprio l'articolo "I falliti", comparso per la prima volta sulla "Rivista mensile del CAI". E' stato scritto quasi trent'anni fa ma è e rimarrà sempre attuale, perché - più che della montagna e dell'alpinismo - parla dell'uomo. Un uomo che utilizza l'arrampicata come mezzo per evadere dalle proprie frustrazioni, ma finisce invece per concentrarvele in una spirale ossessiva: non è infatti distogliendo lo sguardo da sé stessi per fissarlo su una propria passione che si sfugge a ciò che ci si porta dentro.
È un articolo di grande lucidità, da cui trasuda un'esperienza intensamente vissuta; un articolo in cui molti di noi - che pensiamo alla montagna o a qualsiasi altra cosa - si può forse in parte riconoscere.
Più che una raccolta di pensieri sull'andar per rocce, è una riflessione sul modo di affrontare le difficoltà e le inquietudini della vita.
Motti è un personaggio molto interessante, come molto interessante è tutto il periodo in cui ha vissuto: il '68, la contestazione e la rottura con i canoni tradizionali, gli stimoli provenienti dagli Stati Uniti, le domande su cosa significasse l'andare per monti e cosa dovesse diventare l'alpinismo; la nascita di un nuovo modo di accostarsi alla montagna, per certi versi vicino a quello che poi si chiamerà arrampicata sportiva ma per certi versi anche distantissimo.
Seguiranno altri post sul personaggio e sul tema in generale, se vi interessa state sintonizzati!
Ecco l'articolo:
« ...i giorni del tempo passato accorreranno a noi tutti insieme quando li
chiameremo e si lasceranno esaminare e trattenere a tuo arbitrio ... È proprio
di una mente sicura di sé e quieta l'andar di qua e di là per tutte le parti della
sua vita, mentre gli animi delle persone indaffarate non passano né rivoltarsi
né guardare indietro, quasi si trovassero sotto il giogo... ». La lettura di
questo sereno pensiero di Seneca in un momento per me particolarmente
positiva e felice, mi ha condotto a trarre alcune considerazioni che a tutta
prima sembreranno interessare solo il mio modo di vivere, ma che invece
investono quello di molti che come me praticano, assiduamente l'alpinismo.
Dieci anni, e non sono pochi, dieci anni durante i quali ho avuto modo di vivere
sensazioni diverse per qualità e intensità, giornate e attimi incancellabili, altri
più cupi e ombrosi che vorrei dimenticare. Dieci anni durante i quali ho potuto
avvicinare un gran numero di alpinisti di diversa estrazione sociale e di
differente sensibilità. Oggi da questi contatti umani esco un pò deluso.
Ebbene sì, ho conosciuto molti alpinisti anche forti, grossi nomi internazionali,
altri meno forti, altri ancora allievi delle scuole d'alpinismo: vi era chi alla
montagna era giunto attraverso l'amore per la natura e proprio per questo
pensava all'alpinismo come a un'avventura più intensa e completa, venuta a
poco a poco in una logica successione di sensazioni e di entusiasmi. Vi era chi
vedeva nell'alpinismo un'affermazione reale e concreta della propria
personalità, affermazione cercata forse proprio in seguito a una frustrazione o
a un fallimento nella vita di ogni giorno.
Sovente ho sentito dire frasi come queste: «Per me la montagna è tutto», «Ho
dato tutto me stesso all'alpinismo», «Se non dovessi più arrampicare sarei un
fallito» .
Sul momento non ho fatto molto caso a simili affermazioni perché anch'io ho
rischiato molto da vicino di divenire un fallito. In seguito a circostanze che avrò
modo di chiarire in seguito, mi sono lasciato tentare dall'antico detto «Eritis
sicut dii».
Sì, anch'io avrei dovuto dedicare tutto me stesso all'alpinismo tralasciando gli
altri interessi. Dimenticare l'amore per il bello, per la musica e la poesia,
l'amore per l'arte in senso lato, l'affermazione di se stessi nella vita di ogni
giorno, le amicizie profonde estranee all'ambiente alpinistico, con cui condurre
discussioni interminabili su tutto e su tutti.
L'importante è allenarsi, sempre e di continuo, non perdere una giornata,
avere il culto del proprio fisico e della propria forma, soffrire se non si riesce a
mantenere questo splendido stato di cose. E se sopraggiunge una malattia o
anche solo un malessere leggero, allora è la crisi, la nevrosi. Perché ciò che
conta è arrampicare sempre al limite delle possibilità, ciò che vale è la difficoltà
pura, il tecnicismo, la ricerca esasperata del "sempre più difficile".
Trascinato da questo delirio, non ti accorgi che i tuoi occhi non vedono più, che
non percepisci più il mutare delle stagioni, che non senti più le cose come un
tempo. Sei null'altro che un professionista; per te l'alpinismo è un lavoro. E
così non ti accorgi che a uno a uno stai perdendo tutti gli amici, quelli che ti
conoscono bene a fondo, che a volte hanno cercato di farti capire che stai
sbagliando, e forse anche tu lo hai capito e lo sai bene, ma consciamente o
inconsciamente ti rifiuti di accettare il peso di una realtà faticosa.
E così sono giunto a scrivere quelle “Riflessioni” che sono la testimonianza
diretta di un uomo che sta naufragando sempre più, di un uomo che sta
sospeso in bilico su un abisso immane, ma che prima di precipitare ha ancora
la forza di ritirarsi un attimo e di pensare in quale stato si sia ridotto. Esaltato,
nevrotico, indifferente quando non assente; ostinato e caparbio nell'inseguire
una meta sbagliata eppure cosciente dell'errore.
Andavo ad arrampicare tutti i giorni o quasi, preoccupatissimo di ogni leggero
calo di forma. Ma non mi accorsi nemmeno che stava divenendo primavera,
non vidi neanche che qualcosa di diverso succedeva nella terra e nel cielo e chi
ben mi conosce sa che ciò equivale a una grave malattia. Arrampicare,
arrampicare sempre e null'altro che arrampicare, chiudermi sempre di più in
me stesso, leggere quasi con frenesia tutto ciò che riguarda l'alpinismo e
dimenticare, triste realtà, le letture che sempre hanno saputo dirmi qualcosa di
vero e che con l' alpinismo non hanno nulla da spartire. Ma qualcosa comincia
a non funzionare: ritornando a casa la sera mi sento svuotato e deluso, mi
sento soprattutto inutile a me stesso e agli altri, mi sembra anzi, e ne ho la
netta sensazione, che il mio intimo si stia ribellando a poco a poco a questo
stato di cose, che il mio cervello non tolleri questo modo di vivere. Ed ecco che
giunge la crisi, terribile e cupa.
Ogni volta che vado ad arrampicare è un tormento, non sono più io, non ho più
equilibrio, le mani mi tremano, non ho più coordinazione nei movimenti, ma
soprattutto non "vedo" più nulla. E questo, chi lo ha provato lo sa, è
veramente terribile. Tutto ti passa davanti e tu te ne stai indifferente, passivo,
non vedi e non senti, ma invece, e ciò ti distrugge, vorresti sentire e vedere
come e più di prima perché il passato rivive cristallino e limpido e si oppone
con forza al buio in cui sei precipitato.
E allora ti dici finito, ti senti esaurito, svuotato: hai chiuso.
Ma cosa hai chiuso? Ma non ti accorgi, non ti rendi conto che ti sei creato
l'infelicità con le tue stesse mani, che hai tradito la tua essenza, che
presuntuosamente ti sei isolato inseguendo fantasie morbose e cercando
sensazioni sempre più esasperate? Hai sempre condannato chi si droga e non
ti rendi conto che anche tu sei un drogato, perché la roccia è la tua droga.
Ti sei ridotto veramente male; eppure un giorno non eri così, eri molto diverso.
Andavi ad arrampicare quando lo desideravi, quando dentro di te sentivi il
sangue fremere e friggere, quando avevi desiderio di sole e di vento, di cielo e
di libertà. Eri allegro e spensierato, avevi un sacco di amici e di amiche, e
soffrivi da morire quando le sensazioni che provavi erano solo tutte per te e
non vi era nessuno con cui spartirle. Così cercavi con la fotografia di rendere
anche gli altri partecipi della tua gioia, oppure li trascinavi in lunghe e
interminabili gite o li legavi a una corda e li portavi ad arrampicare sui sassi
perché volevi che anche loro provassero le stesse gioie e le stesse sensazioni.
E se tu eri il solo a provarle, ne soffrivi, anche fisicamente; ti sembrava di
sentire qualcosa dentro che cresceva a dismisura e sembrava voler scoppiare.
Ma soprattutto eri sereno, sereno nei tuoi pensieri e nei tuoi gesti, sempre
superbo e ambizioso come sei; ma ognuno ha difetti più o meno grandi.
Ora invece sei solo da morire, barricato nella tua torre d'avorio; con il tuo
sterile solipsismo hai distrutto le cose più belle che avevi. Però non hai chiuso.
L'estate sarà triste, la più triste della tua vita. Ma un mattino, a seguito di
lunghe giornate appiattite e monotone; giornate in cui anche una densa foschia
di calore avvolge le creste dei monti rendendole ovattate e lontane, estranee e
distanti, un mattino ti sveglierai sotto un cielo scuro e gravido di nubi, e un
vento freddo e tagliente andrà a dividere i tuoi capelli mentre cammini da solo
per quella strada che ben conosci.
Ma fra le nubi, a un tratto scoprirai un angolo piccolo piccolo di azzurro, che il
vento nella sua gran corsa avrà liberato a poco a poco, e da quella densa
nuvolaglia filtrerà un raggio di sole che come una spada scenderà diritto a
illuminare una cresta tormentata, che solo ieri non avresti neppure notato. E
così oggi i contorni sono chiari e definiti, oggi le creste si stagliano scarne e
scheletrite sotto il cielo d’inchiostro, oggi il verde è più verde, oggi il bosco ha
una vita e un profumo, oggi vedi le cascate e la luce del torrente, oggi ...
Da quattro ore Alberto Re e io siamo seduti su un minuscolo terrazzino,
immersi ciascuno nei propri pensieri, silenziosi e forse un po' gravi. Siamo sulla
Nord delle Grandes Jorasses: è una salita che tutti e due abbiamo sognato e
inseguito a lungo, e ora la montagna ci prova duramente. E pensare che siamo
andati all'attacco ridendo e scherzando, pensare che al rifugio ho dormito tutta
la notte, un sonno tranquillo e profondo: ho persino sognato.
Il primo giorno un sasso ha colpito Alberto; le pessime condizioni hanno
rallentato molto la nostra andatura e abbiamo dovuto bivaccare sopra le
placche nere. E poi la notte è stata un inferno, cinquanta centimetri di
grandine, concerto di tuoni e fulmini.
Oggi nella "Cheminée rouge" ho vissuto i momenti più duri e difficili della mia
vita; siamo stati fulminati, abbiamo dovuto uscire alla disperata da questo
orrendo camino che ci vomitava addosso cascate scroscianti di grandine e
sassi, assordati dal frastuono dei tuoni e della folgore.
Ora è pomeriggio e siamo qui su questo terrazzino a soli duecento metri dalla
meta, e attendiamo in silenzio che la natura si plachi. Siamo preoccupati,
abbiamo paura di morire? Non lo so. lo personalmente vedo ben da vicino il
rischio che ho corso e che sto correndo, ma non ho paura, sono solo molto
triste. È la fine di luglio, e immagino un bel pomeriggio di sole lassù in Val
Grande, e davanti ai miei occhi le immagini si susseguono con chiarezza: cosa
avrei fatto oggi? Forse avrei giocato a pallone, o forse avremmo fatto una
passeggiata tutti insieme nei prati della Stura, e seduti sul solito pietro ne
avremmo iniziato interminabili discussioni sulla religione, sulla politica o sulla
vita. O forse ancora sarei andato con la ragazza in un prato e dopo l'amore mi
sarei soffermato a lungo a dividerle i capelli a uno a uno, o a stuzzicarle il viso
con un filo d'erba, o a osservare la luce dei suoi occhi illuminati dal sole. O,
ancora da solo, sdraiato in un grandissimo prato, avrei affondato lo sguardo
nell'azzurro del cielo con l'intento di scoprirvi lontane fantasie o avrei inseguito
i giochi delle nubi con il sole, cercando forme strane e fantastiche nel loro
biancore pulito. O ancora avrei camminato lentamente, nell'erba, mentre il
vento la piega disegnando le onde del mare e ne trae un profumo forte e
pungente di fiori e di fieno.
E vedo a mezzogiorno tutti i miei cari seduti intorno al grande tavolo e ancora
mi par di sentire le loro e le nostre vivaci discussioni, perché le idee sono molte
e diverse.
Invece sono qui, dove non vi è nulla di umano; ma proprio per questo so che
devo arrivare in vetta, perché quando ritorno mi aspetta la vita.
Per uno strano caso la commozione ci colse su quella vetta delle Grandes
Jorasses, alle nove di sera di un giorno di luglio, sotto un cielo nero e cupo,
illuminato da bagliori violetti verso le cime del Gran Paradiso. Certi momenti
non si dimenticano; restano, segnano per sempre un'amicizia. E se ripenso alle
sensazioni che provai quando ritornai, mi sembra di rivivere ancora uno dei
periodi più pieni e felici della mia vita. Scoprivo ogni cosa come nuova e
diversa, i colori, gli amici, mi sembrava di voler bene a tutti e a tutto. Per un
mese non andai più ad arrampicare o almeno non feci più salite importanti. Ma
in quel mese ebbi modo di effettuare meravigliose gite con gli amici; trascorsi
intere giornate alla ricerca di paesaggi e di fiori per l'obiettivo della mia
macchina fotografica; mi divertii a giocare come un ragazzino. E non pensai
neppure al mio stato di forma, la cosa non mi interessava, perché ero
ugualmente soddisfatto e felice anche se non compivo delle grandi salite.
Tant'è vero che quando sentii ancora il desiderio di una grande e bella
avventura, quando mi prese ancora la voglia di avere roccia sotto le dita,
sempre con Alberto andai a fare la via Brandler-Hasse sulla Nord della Cima
Grande di Lavaredo. E mi trovai benissimo.
Oggi se perdo una domenica intristisco, divento irascibile, nervoso; se ogni
volta che arrampico non vado a fare una via estrema, non mi sento
soddisfatto. Eppure, non mi sembra di essere più in forma di allora.
Non si può andare avanti così.
In primavera ho occasione di leggere un libro che reputo uno dei più intelligenti
e interessanti della letteratura alpina. Si tratta di Les royaumes du monde di
Jean Morin, un romanzo apparso in Francia negli anni Cinquanta. Vi si narra la
storia di un uomo che quasi inconsapevolmente viene assorbito e trascinato
dalla passione delirante per l'alpinismo: un uomo però dubbioso e sensibile,
tormentato sempre dal sospetto di avere sbagliato, ma nello stesso tempo
magneticamente attratto dall' azione anche esasperata. Gli è compagno un
altro uomo che invece vede solo l'alpinismo e che cerca di convincere l'amico a
dare definitivamente tutto il meglio di se stesso alla causa.
Così, il nostro a poco a poco si isola sempre di più, l'alpinismo diviene una
triste droga, quasi un'espiazione da subire in silenzio. A uno a uno perde gli
amici, la ragazza, e si ritrova di fronte al suo fallimento in un'età in cui il
bilancio di se stessi è ancora più duro. Ormai l'uomo ha capito ed è cosciente
del suo errore: la conferma, triste e dolorosa, gli viene dalla tragica morte
dell'amico sulla parete nord dei Bans, attaccata in pessime condizioni di tempo.
Solo, di notte, in un rifugio, Jean si trova di fronte al nulla a cui è approdato;
comprende di aver rinunciato a molto, a troppo pour une lutte sans issue.
La lettura del romanzo mi ha fatto oltremodo riflettere e ho cominciato a
percepire che qualcosa andava incrinandosi. Ma non accettavo ancora la realtà;
anzi, mi ribellavo prepotentemente. Poi, quasi per caso, mi capitò di leggere le
stupende parole scritte da Dino Buzzati molti anni or sono per la morte di
Zapparoli, forse la cosa più bella e più vera apparsa sulle pagine della nostra
rivista.
No io non dovevo finire così, mi sentivo ancora (Dio mio, 25 anni!) vivo, pieno
di interessi, avevo ancora troppe cose da dire, da vedere, da conoscere.
Buzzati fu duro, ma giusto. In fin dei conti Zapparoli era un fallito.
Ma ancora non bastava. Bisognava toccare il fondo. Vuoi per un certo
crepuscolarismo di balorda qualità, che ogni tanto affiora nei miei giorni
peggiori, vuoi per una certa voluptas dolendi che ogni tanto esercita il suo
fascino, assunsi la parte dell'uomo deluso e finito e cominciò una recita
piuttosto grottesca. Per giustificazione o per meglio mascherare il mio
fallimento agli occhi degli altri, mi atteggiai a ribelle nei confronti della società;
cercai di entrare nella parte dell'anarchico che disprezza i comuni mortali, che
odia la normalità, dell'uomo finito a vent'anni, dalle idee tenebrose e cupe, dai
lunghi silenzi. E anche nel vestire cercai di adeguarmi al soggetto proposto:
barba, capelli lunghi, abiti logori e sdruciti, atteggiamenti molto posati.
Con il risultato che il mio cervello non tollerò più oltre e mi assestò il colpo
definitivo. Esaurimento nervoso di grossa portata, con perdita completa del
sonno e un sacco di disturbi fastidiosissimi. Smisi naturalmente di andare in
montagna, in tutti i sensi, anche su quella facile, e non feci che aggravare le
cose.
... Oggi, oggi invece, seppur da un piccolo spiraglio, comincio a rivedere le
cose. Ho capito l'errore; troppo a lungo ho vissuto in una piccola stanza dove
ho chiuso ermeticamente le finestre e le porte, e lì, da solo, nel buio, mi sono
illuso che il mondo fosse tutto racchiuso fra quattro pareti. Poi una finestra si è
leggermente dischi usa e un filo di luce vi è penetrato.
Seguirà un autunno incerto, un ritorno alla montagna timoroso, ma con un
animo diverso. Però non ancora tutto era chiarito; anche se cominciavo a star
bene, qualcosa ancora nella mia testaccia non funzionava.
Incontrerò una sera d'inverno Guido Rossa, il quale fissandomi a lungo, con
quei suoi occhi che ti scavano e ti bruciano l'anima, con quella sua voce calma
e posata, mi dirà delle cose che avranno un valore definitivo. Mi dirà che
l'errore più grande è quello di vedere nella vita solo l'alpinismo, che bisogna
invece nutrire altri interessi, molto più nobili e positivi, utili non solo a noi
stessi ma anche agli altri uomini. Non rinunciare alla montagna. E perché? No.
Ma andare in montagna per divertirsi, per cercare l'avventura e per stare in
allegria insieme agli amici.
lo lo so e l'ho sempre saputo; ma dovevo sentirmelo dire da un uomo che mi
ha sempre affascinato per la sua intelligenza e per la sensibilità artistica che
scopri nel suo sguardo. E poi ci saranno altre persone, tutti gli amici che
stupidamente avevo perduto e che ritroverò a uno a uno e che mi aiuteranno
moltissimo a ritornare quello di prima.
E siamo finalmente nella realtà di questa primavera 1972. Ho trovato un lavoro
che mi soddisfa e mi lascia molta libertà, libertà non solo di andare in
montagna, ma anche di dedicarmi alle mille cose che ogni giorno mi attirano.
Quest'inverno sono andato pochissimo ad arrampicare, ma sono ugualmente
felice e soddisfatto, anzi sicuramente l'anno prossimo dedicherò tutta la
stagione invernale allo sci e cercherò finalmente di praticare con sicurezza
questo magnifico sport. Quest'estate ho in mente sì di effettuare qualche bella
salita; ma voglio anche dedicarmi ai viaggi che da tempo ho abbandonato e
che, invece, sempre sono stati per me fonte di esperienze e sensazioni
meravigliose. Un amico di ritorno dalla Grecia mi ha detto: «Vai di sera verso il
tramonto, quando non vi è quasi più nessuno, di fronte al Partenone ad Atene.
Fra quelle pietre calcinate, in quella sassaia arida e deserta, assordato dal
frinire delle cicale, vedrai tremare nel calore del pomeriggio quelle enormi
colonne e ti sembrerà veramente che il tempo non sia trascorso».
E veramente, come disse Seneca, posso rivedere serenamente i giorni del
passato. E rivedo tanti volti, tanti nomi, per i quali oggi non posso provare che
una profonda tristezza. Perché ho conosciuto molti ragazzi e molti uomini che
avevano trovato nell'alpinismo il compenso al loro fallimento nella vita di ogni
giorno. Uomini che si erano dati e che si danno caparbiamente alla montagna
con l'illusione di trovare un'affermazione che li ripaghi di tutte le frustrazioni, le
delusioni e le amarezze della vita.
Alcuni si illudono di essere qualcuno, credono di essere importanti, solo perché
nell'alpinismo hanno raggiunto i vertici. Ma se tu trasporti gli stessi individui in
un altro ambiente, se li inserisci in un differente contesto sociale, allora li vedi
incapaci di sostenre un dialogo qualsiasi, spauriti e intimiditi, incapaci di
intrecciare relazioni umane. Ed eccoli allora portare a giustificazione del loro
fallimento l'incomprensione altrui, la banalità e il qualunquismo della gente, la
superiorità di chi pratica l'alpinismo, la diversa sensibilità di chi ama la
montagna. In realtà vi sono uomini sensibilissimi e amanti della natura anche
al di fuori del territorio alpinistico, vi sono uomini che cercano e trovano
altrove l'avventura e che sanno comprendere; ma, purtroppo, nell'alpinismo
troppi sono i falliti e troppi i condizionati.
Non sempre, per fortuna, è cosÌ. Sovente ho incontrato ragazzi sereni ed
equilibrati; ma molto più sovente l'uomo alpinista mi ha profondamente deluso
per la sua ristretta visione delle cose, per la sua voluta ignoranza e per il
disprezzo dei comuni mortali.
Chi invece la pensa diversamente, chi ha il complesso da prima donna e a tutti
i costi si arrabatta per essere il primo, chi vive per la grande impresa e la
difficoltà, forse farà per un po' grandi cose, ma poi giungerà alla triste
conclusione di chi, a trent'anni, svuotato ed esaurito, ha dovuto dire addio.
Ogni volta che incontro Francesco Ravelli, penso a quest'uomo più che
ottantenne che ancora oggi percorre i sentieri della montagna e che quando
giunge la primavera mi parla con gli occhi che brillano degli alberi verdi e dei
fiori.
Gian Piero Motti
"Rivista mensile del CAI", Settembre 1972.
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